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E’ successa un'altra volta la “stessa storia”. Ancora una volta le nostre giornate sono state interrotte dalla notizia che, nel mare che abbiamo davanti agli occhi, sono morte delle persone nel tentativo di arrivare in Italia.
Così parte il solito giro di telefonate, ma ad Agrigento siamo rimasti davvero in pochi: “Che si fa?” “Te la senti di andare?” “Andiamo”.

Appena arriviamo, con Enrico iniziamo a ricordare tutte le storie che abbiamo vissuto in quel pezzo di cemento, sempre lo “stesso posto”, il porto di Porto Empodocle. Lo stesso posto dove nel 2002 eravamo venuti ad accogliere le salme dell’ennesimo naufragio, lo stesso molo in cui per mesi restò sequestrata la Cap Anamur, la stessa banchina in cui si svolsero tante iniziative del campeggio antirazzista del 2005, lo stesso luogo da cui l’anno scorso siamo partiti per la manifestazione di Lampedusa.
Ad un tratto i ricordi vengono interrotti da una voce che ci informa che la nave che porta i “cadaveri dei clandestini” arriva alle nove.

Quella frase, “i cadaveri dei clandestini”, ci fa pensare che, anche da morti, quelle lì non sono persone, sono “clandestini”. Anche se sono arrivati in Italia da morti, ci sono arrivati senza permesso.
Non sono neanche dei “nomi”, soltanto dei “numeri”: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11. Ecco cosa ci sarà scritto sulle loro tombe nel cimitero di Favara.
Numeri che si sommano ad altri numeri. Alle migliaia di uomini, donne e bambini che continuano ad essere ripescati nei nostri mari e ad aggiornare le statistiche dell’ “emergenza immigrati”.

A nessuno sembra importare niente di queste 11 persone. Alla città sembra ormai una cosa normale, una cosa già vista.
Così al porto ad aspettare la nave della marina militare, oltre me, Enrico e Leonardo, ci sono solamente carabinieri, medici, un magistrato, un codazzo di giornalisti e fotografi e quelli delle onoranze funebri. A quanto pare sono loro i più in apprensione, terrorizzati dalla possibilità che appaltassero la gestione della serata ad una ditta di Palermo.

Tutte le operazioni di “sbarco” vengono svolte con grande professionalità, con una “tecnica” ineccepibile. La marina militare con una gru trasporta i cadaveri giù dalla nave, fasciati dentro dei teli. Cameraman e fotografi si accalcano in cerca dello scatto migliore. I carabinieri gestiscono l’ordine. Le undici auto delle onoranze funebri si mettono in fila.
Tutta gente che lavora, tutti a fare il proprio mestiere. Un’atmosfera serena.
Proprio questa freddezza tecnica rende tutto lo scenario ancora più atroce: una scena simile a quella che si può vedere in un officina o in panificio, con la differenza che tutta questa gente non ha a che fare con delle macchine o con del pane, ma con una tragedia che aveva coinvolto undici persone.

Tutti sembrano assuefatti, pura routine: lo stesso posto, la stessa tragedia, le stesse operazioni. Tutto sembra uguale, ci diciamo che l’unica cosa che è cambiata è il “governo”, ma sembra non fare molta differenza, sicuramente non la fa per quegli “undici”.
In questi anni avevamo sempre detto che le “tragedie del mare” avevano una responsabilità politica, che la colpa era della Bossi-Fini e del governo Berlusconi. Che, c’era poco da meravigliarsi, perché se non si fossero create delle forme di ingresso legale in Italia, se si fossero, cioè, lasciati gli sbarchi come unica forma di ingresso, queste tragedie sarebbero continuate ad oltranza.
Non ci resta che ripetere anche noi le stesse frasi, sostituendo Bossi-Fini con Amato-Ferrero, e Governo Berlusconi con Governo Prodi.
Tra i morti degli anni passati e queste undici persone non riusciamo a trovare alcuna differenza.
Ci sembra il trionfo del necessario, dell’inevitabile. Queste morti vengono presentate come il tributo da pagare nella costruzione di un sogno di grandezza trionfante e, appunto, di perfezione tecnica. Come disse qualcuno: “Qui c’è in gioco l’Europa”.
Enrica Rigo, nel suo recente “Europa di confine”, suggerisce che il “confine” è il luogo più adatto da cui volgere lo sguardo all’Europa per capirne le evoluzioni. Così, quella sera del 18 giugno, mentre stavamo seduti su uno scoglio di frontiera, guardando la nave arrivare all’orizzonte, mi è venuto in mente che è in quella direzione che dovevo guardare per comprendere ciò che accade nel continente alle mie spalle.
Lo squarcio che ne viene fuori è disgustoso.


T. C.

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