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Iniziative previste per il 31/3/2007

Per la rassegna:

INFLESSIONI

...musica, teatro, danza...



Compagnia Quartiatri

Dario Muratore e Dario Mangiaracina

"…dove le stesse mani"



Terra di sapori, terra di odori, terra di colori, di sete, di sangue.
Terra dove le stesse mani grigie filano trame di colori, di sapori, di sangue .

Tra i grandi quartieri e i sobborghi di Palermo illuminati da grandi lampioni o vecchieluminarie di qualche festa popolare vivono gli uomini dalla testa alta, coloro che tuttopossono osservare ma di cui è meglio non incrociare lo sguardo, i loro occhi peccatori e colmi di orgoglio.
Poi davanti tombe nascoste di vecchi cimiteri di paese, sul bivio di autostrade, sul ciglio di pozzi, illuminati da una fioca candela vi sono coloro che si sono battuti contro questi uomini che per volontà o spesso per sbaglio hanno incrociato quegli sguardi.
Ed è proprio il loro punto di vista, il loro sguardo ad essere raccontato nello spettacolo: quello dei morti di Mafia.
Essi osservano le vicende terrene avvelenate dal crimine, dalla complicità e dall’inerzia morale, da un grande giardino in cui donne, uomini e bambini riposano. Un paradiso laico dove ci sono « i fiori, i carrubi e gli ulivi potati come in Calabria, con i rami all’in giù: « pi pigghiarisi l’umido della terra picchì, s’aspittamu ca chiovi…»
Una sedia, un narratore, una fisarmonica, un musicista così si sviluppa lo spettacolo tra la presentazione di un uomo ucciso per sbaglio dalla mafia, Pino, e quella di un luogo meraviglioso, il giardino dei morti di Mafia.
Lo spettacolo ispirato alla “Cantata per la festa dei bambini morti di mafia” di Luciano Violante, nasce nella primavera del 2006. L’intento è quello di esprimere una necessità che l’autore Dario Muratore ha sviluppato nel corso degli anni ma soprattutto nell’ultimo, trascorso lontano da Palermo.
E, come un’ opera d’arte che è meglio osservarla da lontano per averne più chiaro l’insieme, la distanza porge gli strumenti all’autore per osservare una città, un’ opera d’arte nella sua grandezza colma di meraviglie e di uno splendore antico, corroso, però, dal marcio che si pone oltre la tela dell’opera, all’ ombra dei riflettori, dove non può essere visto. Ed è ciò di cui tratta lo spettacolo che , senza puntare il dito ad alcuno, cerca di fare riemergere negli spettatori un senso di colpa collettivo che è, spesso, riposto a un angolo della propria coscienza.




Lo spettacolo si articola tra italiano e dialetto, in un racconto, intervallato da canti popolari e abbanniate che ha come voce narrante un uomo che dalla mafia è stato ucciso per sbaglio.
Attraverso il topos dell’apparizione in sogno, il protagonista, Pino, si rivolge al cugino più piccolo: cucino Tanino.
Gli racconta che sta bene perché lì la gente è simpatica e poi «...e pieno pieno di picciriddi» e a Pino piace tantissimo stare con loro, perché gli vengono in mente mille ricordi quando anche lui giocava a raccogliere i fiori con Tanino.
Una famiglia umile quella dei due cugini, una famiglia di paese.
Il paese in cui Pino tra feste popolari e pasti mancati è cresciuto.
E si ricorda ancora le filastrocche che cantava da bambino dalle monache, si ricorda il Barone del paese che un pasto, lui, non l’ho mai saltato, si ricorda il matrimonio con la prima picciotta chegli ha sorriso, i suoi tre figli e sua madre.
Pino ricorda quanto la vita del paese fosse bella ma non si lamenta: adesso sta bene e Tanino glielo deve dire a sua madre che «non deve piangere, perché non c’è motivo!».
Così dopo la presentazione dei personaggi inizia la descrizione di un luogo fantastico dove tutti lavorano e si divertono per preparare la festa che gli adulti hanno deciso di organizzare ai bambini.
Una festa in grande, dove ci saranno luci, tamburi, cappelli di carta colorata, coriandoli e anche i mortaretti, «il regalo dei grandiper tutti i bambini dimenticati, uccisi da una lupara, buttati nei pozzi…»
La descrizione del luogo, della gente, dei preparativi si chiude con l’inizio del corteo. Parte da Corleone, attraversa tutta la Sicilia giunge a Catania dove l’Etna erutta in suo onore, arriva ad Agrigento, dove i templi per quella notte solleveranno le colonne, e poi fino allo stretto di Messina, dove incontrano i delfini, e su per il Salento pieno di piccole piazze, Lecce, Bari fino a quando non giungono a Napoli dove i bambini suicornicioni del Maschio Angioino iniziano a cantare, a ballare, a danzare e lì Pino gli dice che l’unica cosa che devono fare e divertirsi, che non ci devono pensare a tutte le cose brutte che hanno vissuto, che se ne devono fregare «accussì, un ci pinsati, addivirititivi, futtitivinni…»
Tra vigneti, montagne, piazze e case le parole si snodano proprio come un lungo corteo che attraversa tutto il sud percorrendo dall’alto luoghi dimenticati, perché riaffiorino alla memoria spogliati delle loro vesti violente, sfiorati, ora da una luce rarefatta.

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