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CPT IN BELGIO
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4 dicembre 2005. Ore 14:00.
Poco lontano dall’aeroporto di Bruxelles si sta svolgendo una manifestazione davanti ad un Centro di Permanenza Temporanea, struttura detentiva per immigrati senza permesso di soggiorno.
Un piccolo corteo rallenta il traffico fuori dalla città , tra strade di campagna.
Comincia a piovere violentemente.
La terra diventa fango. Io e Anna, la prof.ssa di storia dell’università di Bruxelles che mi ha informata della manifestazione, non abbiamo
portato neanche un ombrello ma ce ne infischiamo.
--Non avevo mai visto un CPT in vita mia. Le uniche immagini che conosco quelle dei video girati dai tetti di Lampedusa dal Laboratorio Zeta e dalla Rete Antirazzista Siciliana.
Il corteo si ferma, bloccato dalla polizia. Ci attacchiamo al grigliato.
La rete intorno al centro è doppia. Tutto intorno filo spinato.
“L’anno scorso qualcuno è riuscito a scavalcare la rete” mi spiegano, ”così hanno raddoppiato la protezione”.
Appendiamo gli striscioni alla rete. Cominciano gli slogans. Un uomo
urla al megafono.
La polizia permette l’ingresso ad uomo vestito da Saint Nicholas (Babbo Natale) che porta con sè regali per i bambini del centro.
L’occasione è data dalla festività. Si cerca di sensibilizzare l’opinione pubblica sottolineando la condizione assurda dei numerosissimi bambini rinchiusi per mesi dentro il CPT. Privati di ogni possibilità: della
libertà di vivere, di andare a scuola, di avere una vita normale e di festeggiare Saint Nicholas come tutti i bambini belgi.
La stampa è lì. Il corteo è vario. Molti giovani ma soprattutto gente adulta. Un deputato. Professori universitari. Un’ avvocatessa che si batte per i diritti dei rifugiati. Quest’ultima è una donna giovanissima.
Mi avvicino. Le faccio qualche domanda e le parlo di Lampedusa.
A poco a poco si cominciano ad intravedere mani e volti dalle sbarre della prigione.
Grida. Pianti. Frasi urlate. Lingue che si mescolano. Russo; uno spagnolo azzardato; un francese da straniero.
Noi continuiamo con i nostri slogans. Continuiamo a fare rumore al di qua della rete per farci sentire da chi è dentro, per dire che questo paese non è tutto una merda, c’è gente che si indigna davvero per la
realtà dei fatti, che lotta contro tutto questo.
Una ragazza urla:”Ditemi, in quale posto è proibito leggere? Non possiamo leggere!”.
Un bambino comincia a cantilenare: ”Je veux aller à l’ècole”, “voglio andare a scuola”. Lo fa una ventina di volte.
Ancora qualche braccio che si agita dalle sbarre. Una donna chiede se c’è qualcuno che comprende il russo.
Al megafono si passano messaggi.
Qualche altro bambino fa capolino dalle finestre, sostenuto da un genitore, dietro.
Io zummo al massimo l’obiettivo della macchina fotografica per vedere meglio ma sono lontanissimi.
Anna piange.
Se ne avessi il coraggio potrei definire la condizione di queste vere e proprie prigioni un po’ più civile rispetto alla realtà italiana. Ma sinceramente civile non è un aggettivo utilizzabile.
Sì, la gente non dorme per terra, non viene ammassata in grandi
stanzoni, non viene spedita in Libia su un aereo-bestiame indipendentemente dalla loro provenienza, ma si tratta ugualmente di gravissime violazioni dei diritti umani. Si tratta di abusi di potere, di privazioni delle
libertà fondamentali dell’uomo: prima fra tutte la libertà di vivere.
Le autorità belghe si “ limitano” a rinchiudere i cosiddetti sans papier per mesi in attesa di rispedirli nel loro paese d’origine su aerei
civili, insieme a turisti, gente che si muove per lavoro, per piacere.
Sono numerosi in Belgio i casi di problemi alla partenza di questi aerei fatti da civili che si rifiutano di partire verso il sud scortando
dei prigionieri.
Molti piloti si rifiutano di portare a termine questi “compiti” per via delle piccole rivolte che a volte si scatenano al decollo.
Silvia Todaro
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