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A spasso tra la Nouvelle Vague e dintorni...

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Tutti i Giovedi' - ore 21.30



Cinerassegna:


Parigi è sempre Parigi?"


A spasso per la Nouvelle Vague e dintorni



Ingresso: 1 euro


Bande à part >> 21/12/2006

<< Bande à part >>


(1964)

di J.-L. Godard


Sceneggiatura: J.-L. Godard, dal romanzo Fool's Gold di D. Hitchens
Fotografia: R. Coutard
Montaggio: A. Guillemot, F. Collin
Musica: Michel Legrand
Suono: R. Levert, A. Bonfanti
Interpreti: Anna Karina (Odile), Claude Brasseur (Arthur), Sami Frey (Franz)
Francia, 1964
Durata: 95'


Due o tre cose che ha detto JLG...

La fotografia è la verità. E il cinema è la verità ventiquattro volte al secondo. (1960)

Ci sono grosso modo due generi di cineasti. Quelli che camminano per la strada con la testa bassa e quelli che camminano con la testa alta. I primi per vedere quel che avviene attorno a loro sono costretti ad alzare spesso e d'improvviso la testa e girarla ora a sinistra ora a destra e cogliere con una serie di sguardi ciò che si presenta ai loro occhi. Essi vedono. I secondi non vedono nulla, guardano, fissando la loro attenzione sul punto preciso che li interessa. Al momento di girare un film le inquadrature dei primi saranno ariose, fluide (Rossellini), quelle dei secondi precise al millimetro (Hitchcock). Nei primi si troverà un découpage senza dubbio disparato ma sensibilissimo alla tentazione del caso (Welles), e nei secondi dei movimenti di macchina non solo di straordinaria precisione in teatro di posa ma con un valore astratto di movimento nello spazio (Lang).
Bergman fa parte piuttosto del primo gruppo, quello del cinema libero. Visconti del secondo, quello del cinema rigoroso. Per conto mio preferisco Monica a Senso e la politica degli autori a quella dei registi. (1958)

La carrellata è una questione di morale.

Non mi piace tanto raccontare delle storie. Mi piace invece servirmi di una storia come di uno sfondo di tappezzeria sul quale ricamo le mie idee. Quel che gli addetti ai lavori chiamano "raccontare una storia" mi ha sempre imbarazzato: partire a una certa ora, fare un inizio ed arrivare a una fine... Quel che mi interessa è prenderne dei pezzi. E' il desiderio inconscio di fare un po' di pittura, un po' di musica... (1989)




I 400 colpi >> 28/12/2006

<< I 400 colpi >>


(1959)

di F. Truffaut


Sceneggiatura: François Truffaut
Dialoghi: Marcel Moussy
Fotografia: André Dino
Musica: Jean Constantin
Scenografia: Bernard Evein
Operatore: Henri Decae
Costumi: Gitt Magrini
Montaggio: Marie-Josèphe Yoyotte
Interpreti: Jean-Pierre Léaud (Antoine Doinel), Claire Maurier (Gilberte Doinel, la madre), Albert Rémy (Julien Doinel, il padre), Guy Decomble (insegnate di francese), Georges Flamant (Mr. Bigey), Patrick Auffay (Rene), Richard Kanayan (Abbou) Produzione: S.E.D.I.F./Les films du Carosse, Francia
Anno: 1959
Durata: 93'


Un film 'scolastico', un film che ha fatto scuola e che parla della scuola. Che parla di educazione, dell'educazione di una 'nazione', dei suoi sistemi educativi e, soprattutto, ri-educativi. Parla del rifiuto che un ragazzino di dodici anni è costretto a mostrare nei confronti di tali sistemi, schiacciato fra la mancanza di affetto familiare e la promessa di un futuro che si infrangerà contro le onde basse di un mare fatto di incomprensioni e false verità. Parla delle sue fughe, del suo continuo scappare, da casa, dalla scuola, dalle istituzioni che preposte alla sua (ri)educazione, in progressione, si danno il cambio nel dichiararne l'irrecuperabilità. Parla dei suoi tentativi di imparare dalla strada, della certezza pedagogica che il 'fuori' della scuola è il luogo dell'apprendimento, quel fuori fatto di cose e di persone, di realtà vista con gli occhi 'rovinati' di chi preferisce la sala di un cinema ad una aula in cui la trasmissione del sapere è smascherata nel suo essere puro plagio, mentale prima che letterario.
Un film che ha fatto scuola, che ha imposto all'attenzione del pubblico un nuovo cinema, una nuova forma di narrazione, fatta di tempi morti, di dettagli insignificanti carichi di una quotidianità per se stessa carica di significato. Un cinema che è nuovo nel suo riconoscersi tale, nel suo scoprirsi cosciente di una grammatica, di un proprio linguaggio. Che si sa guardare da quel 'fuori' pieno di città, colmo di una Parigi che si offre già cambiata alla vista di un ragazzino ribelle che, in fuga da tutto, non resiste al richiamo delle insegne che tra Pigalle e Place de Clichy gridano: CINE.
Alessandro Scibetta




Il segno del leone >> 4/1/2007

<< Il segno del leone >>


(1959)

di E. Rohmer


Attori Protagonisti: Michele Girardon (Dominique Laurent), Jess Hahn (Pierre Wesselrin) Gli altri attori : Van Doude (Jean-François Santeuil), Paul Bisciglia (Willy), Gilbert Edard (Michel Caron), Christian Alers (Philippe), Paul Crauchet (Fred), Jill Olivier (Cathy)
Fotografia:Nicolas Hayer
Montaggio:Anne-Marie Cotret
Musiche: Louis Saguer
Prodotto da: Claude Chabrol
Sceneggiatura:Eric Rohmer, Paul Gégauff
Produzione: Ajym Films


Il primo lungometraggio di Rohmer Le signe du Lion (Il segno del Leone) esce a Parigi solo tre anni dopo la sua realizzazione. Il film, mai distribuito nel nostro circuito cinematografico, viene trasmesso per la prima volta negli anni Ottanta su Raitre.
Le riprese sono quasi interamente in esterno senza luci artificiali e con suono in presa diretta. E' un film raccontato per immagini, le immagini di una Parigi assolata, che diviene spietata per un musicista che, se pur da sempre squattrinato, vede peggiorare repentinamente la sua condizione economica ed è costretto ad assumere una nuova contingente identità sociale che lo allontana progressivamente dal piano esistenziale precedente per assumere quello da clochard. Lo spettatore si immerge insieme a Pierre tra le vie di Parigi, lo accompagna nel suo vagare tra le piazze, lungo la Senna, una Parigi fatta di pietra, "sporca", una Parigi che appare ostile. Quando ormai Pierre sembra aver perduto le speranze di riemergere dalla condizione in cui è scivolato, per un altro caso, questa volta fortuito, ottiene un?eredità ormai insperata che muta totalmente e nuovamente la sua vita.


Angela Giardina




Cléo dalle 5 alle 7 >> 11/1/2007

<< Cléo dalle 5 alle 7 >>


(1962)

di A. Varda


Francia-Italia, 1962
Durata: 86'
Sceneggiatura: A. Varda
Fotografia: J. Rabier
Montaggio: J. Verneau
Musica e canzoni: M. Legrand
Produzione: G. de Beauregard, C. Ponti
Interpreti: Corinne Marchand (Cléo)
Antoine Bourseiller(Antoine)
Dominique Davray (Angèle)
Michel Legrand (Bob)
Dorothée Blank (Dorothée)
Serge Korber (Plumitif)
Jean-Luc Godard & Anna Karina (i fidanzati del ponte Mac Donald)


"Questo film è un ritratto di donna inscritto in un documentario su Parigi, ma è anche un documentario su una donna e l'abbozzo di un ritratto di Parigi"
(A. Varda)

21 giugno 1961, solstizio d'estate. Per un'ora e mezzo (dalle 17 alle 18.30) la camera segue gli spostamenti attraverso Parigi della protagonista, una giovane e bella cantante in attesa dei risultati di un esame medico. Cléo teme di avere il cancro. Come si trasformano lo sguardo e la percezione di sè nell'attesa della morte? A partire da questa domanda Agnès Varda realizza uno dei capolavori della Nouvelle Vague.
Cléo, precipitata in una situazione angosciosa, vede crollare le sue illusioni: inizia così un percorso di trasformazione che la porterà ad una nuova consapevolezza del suo posto nel mondo. Nella prima parte, infatti, la vediamo tutta presa da se stessa e dalla sua bellezza: impermeabile agli altri e al mondo, viene tenuta in una sacca ovattata di protezione dalle persone che le stanno vicino, è considerata una bambola capricciosa da tenere buona con qualche balocco nuovo e da non prendere troppo sul serio. Nella seconda, invece, liberatasi dalla presenze ingombranti, comincia a mettersi in gioco, scopre che esistono gli altri con i loro corpi e sensazioni, scopre che la realtà può essere brutta o fare orrore: avviene la sua "uscita dallo stato di minorità". Un elemento fondamentale che accompagna il cambiamento è la nuova valenza assunta dallo sguardo: da oggetto di quello degli altri (o del proprio) Clèo ne diventa soggetto e ne agisce le potenzialità conoscitive, aperta ormai alla relazione e all'incontro (che sia anche una risposta della regista alla questione del ruolo del cinema?).
Il film è un miracolo di equilibrio tra pesantezza (della materia) e leggerezza (della forma), reso possibile dalla dialettica tra la solidità della struttura (scandita dalla separazione in capitoli, e rafforzata dalle simmetrie, i parallelismi, le riprese) e l'agilità del movimento, che viene a costituire un flusso continuo, un viaggio ininterrotto. In maniera coerente a tale tensione, si viene a costruire una rappresentazione complessa del tempo: sullo sfondo del tempo oggettivo e inesorabile degli orologi scorre quello soggettivo, dilatato o compresso, degli uomini. Ciò viene esaltato dall'abolizione della distinzione tra tempo dell'azione e tempo del racconto che immerge lo spettatore direttamente nella vicenda. Ma non si tratta di un processo a senso unico: l'immedesimazione viene ora facilitata ora ostacolata dal ritmo della macchina da presa e del montaggio, che in alcuni frangenti "scompaiono" respirando all'unisono con la protagonista, e ne sottolineano così stati d'animo e sentimenti; in altri marcano la propria presenza con movimenti clamorosi e innaturali, spezzando l'illusione e facendo da contrappunto all'azione. Inutile sottolineare, a questo punto, la perfetta padronanza tecnica che mostra la Varda, mai però finalizzata al virtuosismo, bensì ad una compiuta resa espressiva; ne sono esempi ulteriori la ricchezza dei generi presenti (documentario, commedia musicale, film romantico, comica anni '20, romanzo di formazione, dramma, saggio...), e la capacità di utilizzare la musica (di un Michel Legrand geniale anche come attore) non come mero elemento decorativo, ma come nodo centrale da si origina tutta la costruzione.

Nino Termotto




Playtime >> 18/1/2007

<< Playtime >>


(1962)

di J. Tati


Francia 1967

regia: Jacques Tati
sceneggiatura: Jacques Tati, A. Buchwald, J. Lagrange
fotografia: J.Badal, A. Winding
interpreti: Jacques Tati, Barbara Denneck, Jacqueline Lecomte, Reinhard Koll

durata: 114'


A conclusione di questa rassegna sulla Parigi della nouvelle vague, Playtime costituisce, almeno a prima vista, un esito alquanto insolito. La Parigi di Tati non è la Parigi dove sinora abbiamo "pedinato" i personaggi di Godard, Truffaut, Rohmer e infine della Varda. In Playtime, della Parigi che conosciamo non resta che qualche riflesso in una delle tante porte a vetri che si aprono e si chiudono nella loro trasparente e vuota perfezione. In questa caotica città ultramoderna, fatta di uffici asettici e di grigi palazzi tutti uguali, riusciamo a stento a seguire i percorsi di Monsieur Hulot, perso tra una folla anonima di persone che vanno e vengono, si incontrano e si perdono nel traffico metropolitano. Se Tati appartiene alla nouvelle vague, tuttavia, vi appartiene perché manifesta pienamente quanto questi preparavano: un burlesque derivante da situazioni puramente ottiche e sonore. Il sonoro, in particolare, entra in rapporti profondamente creatori con il visivo, ed entrambi cessano di essere subordinati alla semplice azione per acquistare una loro autonomia. La scena sostituisce l'azione, in una sorta di balletto dove Tati fa proliferare dappertutto i Monsieur Hulot, forma e disfa i gruppi, unisce e separa i personaggi.
Oltre ad essere un'ironica denuncia della disumanizzazione provocata dai processi di standardizzazione del mondo moderno, Playtime è dunque una straordinaria opera visiva in cui la coerenza delle scenografie, popolate di palazzi squadrati e di file identiche di lampioni, si sposa con la precisione delle coreografie: gruppi di persone si muovono in perfetta sintonia, gesti e rumori sono sincronizzati secondo una strategia comica precisa, e porte e finestre si aprono e si chiudono secondo tempi stabiliti e alternati. Con una tecnica originalissima Tati trasmette l'effetto di smarrimento e dispersione proprio delle metropoli moderne: lo schermo è affollato da una gran quantità di figure ed azioni, mai focalizzate da primi piani. Allo spettatore è richiesta, pertanto, una lettura che colga nella loro simultaneità i segni sparsi sulla superficie dello schermo, dal momento che spesso nessun indizio chiaro e distintivo interviene a stabilire una gerarchia.

Arianna Triolo




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Da: n4rc0s

Ottima scelta. Questi film erano tutti molto belli. Ho adorato "I Quattrocento Colpi" di Truffaut.

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