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Appunti del Laboratorio Zeta sulle prossime amministrative

Lo scorso fine settimana, proprio mentre il Laboratorio Zeta festeggiava gli 11 anni di occupazione (il primo compleanno senza Cammarata sindaco) si compiva in città il definitivo passaggio dalla fase post-primarie a quella pre-elettorale.

Proviamo allora anche noi a rompere gli indugi, esplicitare il nostro punto di vista e proporre alcuni elementi di discussione.

Sparare a zero contro tutto il ceto politico del centro-sinistra palermitano sarebbe sin troppo facile, a tratti anche noioso e sicuramente poco utile, almeno per il momento. Certo è che esistono responsabilità tanto diffuse quanto precise se dopo dieci anni di Cammarata ci si trova ad un mese dalla elezioni in una situazione frammentata, confusa e di debolezza. Questioni che hanno a che fare con vanità personali e ambiguità strategiche, e con la crisi generale della politica intesa come pratica collettiva di partecipazione.

Eppure doveva essere abbastanza semplice costruire un'alternativa credibile dopo anni in cui - è bene ricordarlo - sono stati regalati milioni di euro ai responsabili delle municipalizzate che hanno ridotto Palermo una discarica a cielo aperto, in cui interi nuclei familiari sono stati mandati a vivere nei container, in cui tristi rappresentazioni postcoloniali fatte di mandolini e carretti siciliani sono state spacciate per politiche culturali, per non parlare di inquinamento, viabilità, scomparsa dei sevizi sociali e skipper personalizzati.

Eppure, non sta avendo luogo nessuna elaborazione collettiva su cosa hanno rappresentato questi anni per Palermo. La città ha subito un imbarbarimento disarmante delle forme di vita ed un acuirsi mostruoso delle distanze sociali. Quello di Cammarata è stato un berlusconismo fragile, fatto di un populismo disprezzato dal proprio stesso popolo, il quale però non ha perso l'occasione sistematica di rinnovare il proprio consenso, dal momento in cui la disperazione individuale è stata eletta a paradigma fondante del legame sociale. Ha regnato un sistema clientelare da pidocchi arrinisciuti, alimentato, a seconda dei casi, con le megaconsulenze o con i pacchi di pasta distribuiti in pubblica piazza, con i week-end a Dubai o con le briciole avanzate dalle torte, sufficienti a tenere a bada le opposizioni.

La nostra sensazione è che rispetto a questi anni si sia già avviata un'operazione di rimozione: probabilmente prevale la vergogna, con il rischio che questi anni continueranno ad ossessionarci in una sorta di perversa coazione a ripetere.

Non vogliamo fare un discorso da antipolitica, ma queste elezioni ancora una volta sembrano l'ennesimo concorso pubblico in cui i candidati saranno all'incirca 5000 e con cui si andranno ad assegnare 50 posti da consigliere comunale e 120 nelle circoscrizioni.

Il segno più visibile di questa crisi della politica è l'infinita serie di manifesti elettorali con cui inizia ad essere tappezzata la città. Una miriade di facce con accanto scritto “insieme”, “cambiamento”, “nuovo”, ma il cui discorso profondo è: “ora ci provo io”, “ora tocca a me”, “forse è il mio momento”.

Messe una dietro l'altra, quelle facce diventano alla fine indistinguibili ed intercambiabili. Una straordinaria catena di significanti che prosegue all'infinito e che porta irrimediabilmente alla morte, della politica.

Dal decennio di Cammarata non se ne uscirà con scioltezza. La crisi della politica si è radicata più in profondità di quanto immaginassimo: dopo aver passato dieci anni in una città sommersa dall'immondizia alla fine un po' ci si è fatta l'abitudine, ed un po' di puzza ce la continueremo a portare addosso per tanto tempo.

Si arriva allora a queste elezioni con le macchine del fango ben oliate, anche in mano a tutto il centro-sinistra (evidentemente sicuro di un proprio successo) intento ad alimentare una guerra tanto fratricida quanto suicida.

Così mentre i vari Aricò, Costa e Caronia promettono di rappresentare il cambiamento (certo che bisogna proprio avere la faccia come il culo), a sinistra vediamo ex compagni di partito farsi reciprocamente accuse da denuncia penale, e al tempo stesso gente, che durante e dopo le primarie non ha fatto altro che infangare il rivale, riuscire a trovare improvvisi margini di mediazione e ricollocarsi alla corte di quello che poche ore prima si accusava di essere un criminale.

Ci sembra che siano in pochi quelli che possano rivendicare la buona riuscita delle primarie: comunque ne escono tutti male. Noi siamo stati fortemente critici verso quel percorso che, a nostro parere, non portava all'apertura di spazi reali di partecipazione (come in alcuni casi le primarie hanno pur fatto), ma ad un dibattito strategico tutto interno alle segreterie dei partito.

Detto questo - piccola parentesi di metodo - le premesse disastrose erano tutte chiare da tempo, in primis l'assenza di chiarezza sul nodo del terzo polo da parte (di tutte le componenti) del Pd. Stando così le cose, o non si partecipava, oppure sarebbe stata buona prassi accettare le conseguenze anche della sconfitta.

Il risultato di queste primarie ci appare paradossale, schizofrenico, frutto di una sorta di doppio legame. Il dibattito pubblico è stato caratterizzato, infatti, da due narrazioni opposte, entrambe vere, entro cui tutti gli altri discorsi vengono stritolati.

La prima è quella del vecchio contro il nuovo, che contrappone chi vede negli ultimi dieci anni un buco temporale in cui non c'è stata alcuna opposizione a Cammarata a chi, invece, questa resistenza l'ha costruita e praticata. Questa narrazione parla, quindi, anche di un consigliere comunale che negli ultimi cinque anni ha costruito un proprio radicamento in città, battendosi in prima fila su importanti battaglie. Noi non dimentichiamo di aver avuto Fabrizio Ferrandelli al nostro fianco nella battaglia per il diritto alla casa, come in quella per i diritti dei migranti. Riconosciamo il suo impegno di questi anni e, soprattutto, ce lo ricordiamo sul tetto del Laboratorio Zeta a condividere la resistenza contro lo sgombero del gennaio 2010, resistenza che, tra l'altro, ha visto impegnati in modo compatto tanti soggetti adesso schierati su fronti diversi.

C'è un'altra narrazione, però, altrettanto vera e di segno opposto. E' quella consapevole che l'unico dato politico giocato in queste primarie (e che adesso si continuerà a giocare), è quello dell'alleanza o meno con l'Mpa e della fatidica apertura al terzo polo. Che per noi vuol dire la rottura o meno con gli apparati politici, gli assetti di potere ed i dispositivi amministrativo/clientelari che hanno governato la città e governano la regione.

Ferrandelli continua ad assicurare la propria non disponibilità ad alcun accordo con l'Mpa. D'altra parte restano oscuri, ai nostri occhi, i fondamenti dell'improvvisa alleanza con Cracolici e Lumia. Ci chiediamo quali valori, quali ideali, quali visioni della città stiano alla base di questo inedito avvicinamento.

In questo senso la candidatura di Leoluca Orlando ha un significato che va anche oltre le prossime amministrative. Qui ci sono in ballo la tenuta del governo regionale e, soprattutto, le alleanze dei partiti a livello nazionale, non solo rispetto al governo Monti, ma anche come test verso le prossime elezioni politiche, in cui le alleanze sono ancora tutt'altro che decise.

Sta di fatto che dentro queste due narrazioni, che con un ulteriore scarto di semplificazione diventano “Forza Fabrizio” o “Viva Leoluca”, avviene l'implosione del discorso politico della sinistra cittadina. I motivi che hanno impedito ai due ex compagni di partito di trovare una formula che li vedesse insieme protagonisti di questa tornata elettorale forse diventeranno storia sotterranea della città o, probabilmente, rimarranno confinate allo status di chiacchiera da bar.

Ma prima ancora che le possibilità di vittoria elettorale, in questo quadro viene stritolata la possibilità di aprire processi diffusi di trasformazione. E' il trionfo del discorso semplice, in cui la partecipazione politica si riduce al tifo per uno dei contendenti, al riposizionamento personale all'interno di schieramenti chiusi, al calcolo dell'interesse individuale nell'appoggio di una delle opzioni in ballo.

Noi in questi 11 anni abbiamo alimentato, in mezzo a tanti altri, un piano della politica intesa come agire collettivo, fatta dalla costruzione di un tessuto connettivo solidale diffuso, dalla resistenza alle logiche privatistiche e clientelari. Avremmo voluto dare un contributo diverso, anche diretto, a questa scadenza, ma non ad ogni costo: ci sono scenari in cui pensiamo sia possibile portare un contributo, ed altri, come quello presente, in cui gli spazi si riducono fino all'erosione.

Riconosciamo l'onestà e la serietà di diversi soggetti con cui in questi anni abbiamo condiviso battaglie e che in queste elezioni avranno un ruolo attivo; con loro continueremo, dove possibile, ad interloquire e, quando richiesto, a dare contributi di ragionamento.

Durante questi due mesi, però, per quello che può valere, non esprimeremo alcuna candidatura, né daremo indicazioni di voto, se non nel senso che ci batteremo affinché il centrodestra non ritorni al potere e che andremo a votare (ed inviteremo a farlo) per quei candidati che rappresentano una alternativa netta rispetto al recente passato.


Detto questo, siamo consapevoli che le continuità il più delle volte non passano per gli apparentamenti, ma per compatibilità più sottili e meno appariscenti. Come del resto che le rotture profonde non passano semplicemente per l'intransigenza degli schieramenti ma per l'apertura di forme di partecipazione differenti e radicali.

In questo senso la categoria del Bene Comune, al di là della sloganistica democratica dell'ultima ora, rappresenta per noi un punto di partenza importante per costruire un piano della partecipazione collettiva fatto del coinvolgimento diretto dei cittadini alla costruzione di nuove istituzioni a tutela del comune.

Su questo terreno si gioca ad esempio la battaglia per smantellare gli assetti di potere che governano le municipalizzate e pensare nuove forme partecipate di gestione delle risorse pubbliche.

Come anche l'opposizione tra un'idea di città chiusa e segmentata, in cui le linee di sviluppo sono guidate degli interessi proprietari dei piani di confindustria, e un percorso di partecipazione diretta come quello che sta alla base, ad esempio, del movimento I cantieri che vogliamo all'interno dei Cantieri della Zisa.

Pensare la città come bene comune vuol dire anche guardarla nella sua complessità, scardinare le retoriche di centro e periferia e pensarla a partire dai flussi locali e globali di cui partecipa.

Vuol dire, infine, guardare in faccia le condizioni di disastrosa diffusione della povertà e di assenza di ogni forma anche minima di garanzie sociali che coinvolge larghissima parte della città. Lavoratori in nero, migranti di prima e seconda generazione, lavoratori informali, disoccupati, precari non sono una parte marginale di Palermo, ma ne rappresentano, tutti insieme, la condizione generale. Una molteplicità che vive il territorio senza avere accesso ai diritti anche minimi di cittadinanza e che con la crisi globale vedrà la propria condizione peggiorare ulteriormente.

Queste sono alcune questioni primarie su cui a nostro avviso si dovrebbe articolare il dibattito politico. Proprio perché dovremmo sapere ormai da tempo che non bastano le figure messianiche per mettere in moto trasformazioni profonde, ma che queste passano necessariamente per processi molecolari diffusi, in cui è più importante rompere argini che alzare steccati.


Laboratorio Zeta

Palermo 28/03/2012

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