Lampedusa


Articolo scritto per la rivista "l'ernesto" 5/2005

--Dovrebbe essere più facile adesso scrivere di Lampedusa. Cercare di parlare di quest’isola al di là delle immagini che tutti noi abbiamo visto per anni: le barche che arrivano dal mare d’Africa cariche di uomini e donne sempre liquidati con termini come “clandestini” o “disperati”, l’ “accoglienza” militarizzata in banchina, i commenti più o meno surreali del sindaco o degli abitanti dell’isola… ‘non ce la facciamo più, Lampedusa scoppia, è invasa. Il centro di accoglienza è al collasso’.
È invece risulta difficile, proprio adesso, parlare di Lampedusa. Perché finalmente lo stanno facendo in tanti mentre chi scrive ha ancora negli occhi le deportazioni di centinaia di persone verso la Libia, i cargo militari sulla pista del piccolo aeroporto, i turisti al di là del vetro ad attendere come nulla fosse di prendere il loro aereo e tornare a casa, il campo di detenzione, lì a pochi passi dove come dentro un magazzino merci file di uomini legati aspettavano il proprio turno.
Cosa dire, ancora, di Lampedusa quando un anno fa, nell’Ottobre del 2004, insieme ai compagni della Rete Antirazzista Siciliana, l’abbiamo fatto fino a perdere la voce.
In quel periodo più di una delegazione riuscì ad entrare nel centro di detenzione che ancora troppi si ostinano a chiamare “centro di accoglienza”. Chi di noi ebbe l’occasione di farlo, come interprete e accompagnatrice dei parlamentari, si rese conto subito che nessuno di quegli uomini trascinati verso il deserto libico era mai stato anche solo identificato. Chi di noi ebbe l’occasione di entrare nel Centro di Permanenza Temporanea in quei giorni di ottobre di un anno fa denunciò già allora le condizioni disumane di quel luogo. Non eravamo in visita insieme a una delegazione ufficiale di europarlamentari come è avvenuto lo scorso 15 settembre. Non c’era quindi stato il tempo né di svuotare né di lustrare il centro. Potemmo così vedere parte di quello che Fabrizio Gatti ha raccontato nel suo recente servizio pubblicato dall’Espresso.
Non è possibile dimenticare quell’odore. I rivoli di feci e urine in mezzo a cui centinaia di persone erano costrette a mangiare e dormire. Non è possibile dimenticare i loro volti e i loro occhi fissi, la loro paura di parlare con noi davanti ai carabinieri o al personale della Misericordia. I tentativi di togliersi la vita da parte di alcuni ragazzi quando hanno scoperto che la loro destinazione ultima sarebbe stata la Libia. Trovammo un minorenne lì dentro. E chissà quanti ne erano stati già deportati nei giorni precedenti. Riuscimmo a tirarlo fuori “perché questo non è luogo per un ragazzino” disse qualcuno di noi. “Non è luogo neppure per un uomo” ci rispose uno dei detenuti. Mancava ogni cosa, persino la Convenzione dell'ente gestore con la prefettura, delle regole scritte o un telefono funzionante. Non c’erano materassi degni di questo nome né lenzuola. Mancavano anche le porte degli otto cessi posti al centro esatto del campo. “Perché si mangiano le maniglie” ci ha spiegato qualcuno dei “volontari misericordiosi” che lavorano lì. "Oppure gli spazzolini, si ingoiano anche quelli". Ecco perché gli spazzolini da denti erano tutti ammassati nell'ufficio con le bandierine rosa-nero del signor Scalia, direttore del centro, e se qualcuno voleva lavarsi i denti doveva prima riuscire a chiedere il permesso ed essere scortato da un carabiniere fino al bagno. Ogni cosa dentro questi luoghi sembra pensata per annientare la dignità di chi vi entra.

Ed ecco perché è così complicato adesso trovare parole nuove per Lampedusa. Perché è passato un anno da allora e non è cambiato niente. Dalle nostre denunce sono trascorsi più di dodici mesi durante i quali migliaia di persone hanno continuato a subire quello che è finalmente venuto fuori con maggiore “potenza mediatica” attraverso il report di Fabrizio Gatti.
Questa nuova risonanza data a una situazione che tutti avrebbero già dovuto conoscere da tempo non è l’inizio né la fine di niente. Soprattutto non è un punto di arrivo. È una tappa importante all’interno di un percorso complesso che deve essere analizzato e portato avanti nella sua interezza. È questo, allora, il momento in cui occorre essere più lucidi.
Cosa dire quindi, adesso, di Lampedusa?
Si può scrivere ad esempio che quest'isola è davvero, almeno in parte, come l’ha raccontata il servizio che La7 ha mandato in onda il 15 ottobre scorso per "Così è la vita”. È surreale e unica, piena di personaggi improbabili che hanno quasi costruito la loro identità attorno al fenomeno degli sbarchi e alla “gestione” del “problema” dei migranti. Appena si arriva a Lampedusa e ci si avvicina alle zone degli sbarchi o all’aeroporto, è facile imbattersi immediatamente nella pizzaiola leghista che, mentre si sistema i capelli e si aggiusta il fazzolettino verde intorno al collo, farnetica su come gli africani ‘debbano starsene a casa loro perché lì non gli manca niente e si vede da come arrivano ben vestiti…’, oppure nella signora che ti dice che è per colpa dei “turchi” se loro lì non hanno nemmeno un ospedale e vivono nella paura dei terroristi, oppure ancora nel comandante della finanza “buono” che prima, quando viveva al nord Italia era un pochino razzista, ma ora, invece, da quando lavora a Lampedusa, ha persino scoperto da sé che anche i neri sono esseri umani… Lampedusa è la bandiera della Lega Nord che sventola nella piazza principale del paese, è le croci del piccolo cimitero, numerate e rotte dove i fiori di plastica restano a monito di una pietà concessa per un solo momento e poi dimenticata. È i bambini che vengono a urlarti che i neri devono tornare nelle fogne, e tu pure perché stai dalla loro parte. È il concerto di Claudio Baglioni che celebra la solidarietà degli isolani verso i "poveri africani " e poi scopre che la sua amica pizzaiola è giusto un po' razzista. Lampedusa è anche tutti i suoi turisti, tanti, soprattutto d’estate. Nonostante i timori dei lampedusani che non ne arrivino più a causa della “cattiva pubblicità” degli sbarchi, turisti e migranti restano due mondi paralleli che su un’isola lunga meno di dieci chilometri, non si incroceranno mai. Certo, Lampedusa è tutte queste cose insieme che la rendono un luogo a sé stante e difficile da comprendere. Ma c'è dell'altro se si guarda più a fondo.

Quello che sta più a fondo è che a Lampedusa si realizzano, portati ai massimi termini, gli obiettivi che le politiche italiane ed europee sull’immigrazione e sull’asilo stanno cercando di raggiungere ovunque. Lampedusa è gli accordi bilaterali con la Libia, rimasti ancora segreti, in cui la moneta di scambio sono i corpi vivi dei migranti che arrivano e vengono deportati, è un luogo che diventa interamente frontiera dove tutto può accadere, è uno dei primi tentativi di esternalizzare pratiche politiche di cui i governi europei possono evitare di giustificarsi relegando in queste zone extra-territoriali, che non sono più Italia, che non sono più Europa, il lavoro sporco della detenzione amministrativa. È la messa in scena spettacolare dell'invasione cui bisogna resistere e dell'accoglienza fatta per forza di cose col manganello. È la riproposizione ininterrotta di quelle immagini e di quella retorica necessarie alla produzione del nuovo immaginario collettivo così fondamentale nella costruzione dell'identità dei “cittadini” che vivono e si muovono legittimamente all’interno della Fortezza Europa col suo spazio di "Libertà, Sicurezza e Giustizia". In questo laboratorio di costante sperimentazione, ad esempio, l'unico contatto che gli abitanti di Lampedusa hanno avuto in tutti questi anni con i migranti è stato di tipo fortemente simbolico e per forza di cose orientato. Un tempo, quando arrivavano, le persone appena sbarcate dovevano attraversare il paese prima di essere rinchiuse nel centro. Adesso vengono trasportate con le camionette delle forze dell’ordine, ma cambia poco. Allora come oggi lo spettacolo è rimasto immutato: uomini e donne in fila, talvolta coi polsi legati, scalzi o con scarpe prive di lacci perché non ne facciano un'arma, scortati da decine di poliziotti e finanzieri, quando non da membri dell'esercito in tuta mimetica. Dalla banchina militare al Cpt. Dal Cpt alla nave per Porto Empedocle, o a quegli aerei che partono quasi sempre per destinazioni sconosciute. L'immagine trasmessa è così quella di persone immediatamente criminalizzate, chiamate clandestine quando ancora si trovano in acque internazionali e vengono avvistate, che se vengono trattate così, come dei delinquenti, in fondo un po’ delinquenti lo saranno davvero… Persone per le quali non è consentito neppure avere pietà, perché se un peschereccio salva l'equipaggio di una barca carica di migranti che per caso incontra la sua rotta, viene accusato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, e se un pescatore recupera un cadavere e lo porta a terra subisce immediatamente il sequestro del mezzo e l'interruzione anche per mesi dell'unica attività da cui trae sostentamento.
E così i migranti, semplicemente, a Lampedusa come in tutta Europa, non sono più persone. Quasi non esistono fisicamente. Di certo non esistono come individui, come uomini e donne, bambini, famiglie, ciascuno con il proprio progetto migratorio e la sua idea della vita. Sono solo una minaccia e un problema incombenti, sono un’invasione da cui la nostra polizia per fortuna sa ancora difenderci, sono una massa indistinta di "disperati e clandestini" che vengono fin qui a crearci problemi come se non ne avessimo già abbastanza. E quindi vanno allontanati subito oppure vanno rinchiusi, concentrati da qualche parte dove non possano dare fastidio. Non si può ucciderli certo, ma si può lasciarli morire, nei deserti lontani dove nessuno li vede, nei campi di frontiera dell'Unione Europea, o nei centri di detenzione fatti apposta per loro, magari bruciati vivi, come è avvenuto a Trapani nel 1999 o solo pochi giorni fa ad Amsterdam.
I Cpt, come tutti i campi di raccolta di esseri umani, sono luoghi le cui reali funzioni non vengono mai raccontate. Sono il laboratorio dove si sperimenta come separare i “cittadini” dalle persone che cittadini non saranno mai, perché sono "di troppo", "incollocabili", "non-integrabili". Oppure perché serve che qualcuno arrivi qui da noi in questo modo, che vi resti anche, ma dopo avere ben capito che non avrà mai il diritto di avere alcun diritto, che dovrà restare precario, isolato e ricattabile. Neppure la metà dei migranti che attraversano l’inferno dei centri di detenzione europei vengono poi effettivamente espulsi. Si spendono milioni di euro anche per produrre una nuova classe di lavoratori a costo quasi zero, e si nasconde la verità di questi luoghi affidandone la gestione a enti cosiddetti umanitari come la Misericordia o la Croce Rossa in Italia che ingrassano sulla connivenza con i soprusi e le violenze esercitati su chi non ha più difese, dando modo a politici e giornalisti di continuare a parlare di "accoglienza". Bisogna smascherare il linguaggio umanitario che si riproduce costantemente dai media ai testi di legge e poi ancora ai media, e arriva all'opinione pubblica che si lascia ingannare. L'accoglienza che ci raccontano è pane e acqua dietro le sbarre o il filo spinato, è una frontiera portatile, mobile, spostabile a seconda delle esigenze, è un riscrivere continuo che c'è un NOI e un LORO, un DENTRO e un FUORI. È la signorina della Croce Rossa di Licata, che, subito dopo uno sbarco lì al porto, giocava con una bambina mentre le metteva un numero addosso e il poliziotto di fianco a lei ne preparava la deportazione. È evitare che anneghino se li vedi in tempo e permettergli di sedersi cinque minuti o anche sei ore all'ombra di una parete prima di ripartire in pullman, in nave o in aereo verso un luogo di accoglienza ancora più efficace.

I Cpt e le politiche che li hanno voluti, infine, servono alla costruzione di un capro espiatorio nuovo, su cui riversare un allarmismo continuamente riprodotto e assolutamente necessario alle nostre fragili democrazie per non affrontare i reali problemi che rendono noi cittadini della parte “giusta” del mondo sempre più insicuri e infelici. Ancora una volta l'esempio di Lampedusa ci viene in aiuto in modo emblematico: se non esistessero “i neri, i turchi, i clandestini” su cui i suoi abitanti possono sfogare le loro frustrazioni, forse qualcuno avrebbe davvero dovuto affrontare i problemi che rendono difficile la loro vita, forse la gente di quell’isola avrebbe già rivendicato e ottenuto dei diritti minimi fondamentali come quello di avere un ospedale. E questo è ciò che in scala diversa sta avvenendo in tutta Europa.

Se solo si guarda più a fondo, ciò che si scopre, quindi, è che Lampedusa non è solo Lampedusa. È Trapani e Amsterdam, è Ceuta e Melilla, è la Polonia che per entrare in Europa ha dovuto costruire 13 lager per migranti in pochi anni, è le nostre città improvvisamente più vuote e tristi da quando, grazie alla legge Bossi-Fini, anche i richiedenti asilo vengono detenuti e scompaiono nel nulla, è tutte le persone senza nome morte nel tentativo di migliorare la propria vita a causa della nostra indifferenza, della nostra mancanza di coraggio e della nostra grettezza di tutti i giorni.

E allora, dopo che si è guardato più a fondo, bisogna convincere se stessi e gli altri che quello che sta accadendo è frutto di scelte ben precise, che le cose potrebbero essere molto diverse da come sono. Nessuno sceglie di essere un “clandestino” e purtroppo anche verità così evidenti vanno spiegate a chi non vuole ascoltarle o a chi ha avuto modo di ascoltare sempre cose diverse. Se esistesse una maniera per entrare legalmente in Europa, questi uomini e queste donne arriverebbero qui da noi con i loro piedi e i loro nomi, e con ancora in tasca le migliaia di euro che hanno dovuto invece pagare a chi li ha condotti fino alle nostre coste. Lampedusa, come tanti altri luoghi di questa frontiera continuamente riprodotta, smetterebbe di sentirsi assediata, e tutti noi smetteremmo di pensare ai migranti come “qualcosa da collocare da qualche parte”. La realtà in cui viviamo non è frutto di scelte divine e immodificabili, e quindi si può cambiarla. Sono leggi umane che hanno prodotto la clandestinità e contro questa, mai contro i cosiddetti clandestini, è possibile combattere solo abrogando quelle leggi, ripensando il fenomeno delle migrazioni dalle fondamenta, sgomberando il campo dalle menzogne e dalle strumentalizzazioni, restituendo un'identità, un nome, una storia alle persone che compongono questo movimento inarrestabile e plurale, che dall'inizio della nostra storia ha cambiato il corso degli eventi..

Se si affronterà Lampedusa come un problema contingente si parlerà ancora soltanto di “umanizzare” i lager, di “gestire l’emergenza”. Mentre l’unica emergenza reale è la vergogna di cui chi ha imposto leggi come la Turco-Napolitano e la Bossi-Fini, e ha pensato all’Europa solo attraverso i valori di esclusione e segregazione impliciti nella Convenzione di Schengen, si macchia in modo indelebile giorno per giorno. I Cpt vanno solo chiusi, cancellati. E per farlo vanno distrutte e cancellate tutte le leggi che li hanno prodotti, vanno distrutti e cancellati l'idea di "umanità in eccesso" e il pensiero "concentrazionario" che ne è diretta conseguenza. Senza mezzi termini e ipocrisia, con coraggio, anche a costo di ripensare noi stessi e il nostro modo di vivere. Come scriveva Sayad “riflettere sull’immigrazione in fondo significa interrogare lo Stato, i suoi fondamenti, i suoi meccanismi interni di strutturazione e di funzionamento. Interrogare lo Stato in questo modo, mediante l’immigrazione, significa in ultima analisi “denaturalizzare”, per così dire, ciò che viene considerato “naturale” e “ri-storicizzare” lo Stato o ciò che nello Stato sembra colpito da amnesia storica, cioè significa ricordare le condizioni sociali e storiche della sua genesi".

Alessandra Sciurba


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Articolo tratto da: Laboratorio sociale occupato zeta - ZetaLab - Palermo - http://www.zetalab.org/
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