Per Baudrillard


Pubblichiamo un ricordo di Jean Baudrillard scritto dal comune amico Marcello Faletra.
La collaborazione e l'amicizia di Baudrillard con CyberZone è di antica data, Marcello inoltre è anche un grande conoscitore dell'opera del filosofo francese.

Per Baudrillard


Marcello Faletra



Specchi, feticci, oggetti, simulacri, immagini, tutte condizioni fragili dell’esistenza, illusioni fatali di cui Baudrillard ne è stato un cantore freddo e implacabile. Per intendere questo spirito singolare e irregolare che è stato Baudrillard bisognerebbe insistere sulle parole tenersi a distanza: “non c’è immaginario se non a distanza” scrive in uno dei suoi diari. Appassionato di deserti, del nulla oggettivato in cosa o feticcio, delle forme in via di sparizione, di tutto ciò che concorre a porre fine al senso, al suo “grasso” che oleifica e ingozza il ventre dei filosofi, distruttore di certezze, amante dei dettagli e del silenzio…La sua scrittura distrugge, polverizza, cerca di crearsi quel vuoto necessario per resistere all’effetto serra culturale. Il suo distacco apparente dal mondo era compensato da un sorriso generoso. Quello che non sopportava, mi disse una volta, erano domande come: cosa ne pensa del postmoderno? E lo infastidiva il fatto che venisse preso come ispiratore o filosofo della postmodernità. Baudrillard non si è mai identificato con l’oggetto delle sue osservazioni; così come è stato presente di fronte alla società iperreale basata sul principio della simulazione e della “scomparsa del reale”, lo è stato altrettanto di fronte alla razionalità degli oggetti della società del consumo cui corrispondeva l’irrazionalità dei bisogni degli anni ’60 e ’70. Qui il soggetto era un come un “attrattore strano”, era la forza centripeta del consumo, nella società iperreale, invece, resta solo l’oggetto come attrattore strano, il soggetto scompare nell’oggetto.
Attribuire certificati d’identità a un pensatore atipico come lo è stato lui, significa falsificarne l’immagine. Tra gli equivoci più grossi vi è quello dei “simulazionisti” newyorkesi, un gruppo di artisti emerso negli anni ’80, i quali si erano illusi di ispirarsi ai suoi scritti. Su questa prole spirituale non voluta Baudrillard è stato lapidario: “Non ho nulla di dire su loro. I miei testi potrebbero servire da giustificazione per qualsiasi cosa. Fare dei miei scritti una referenza è già in sé una simulazione ”. In tutti i suoi scritti vi è qualcosa di diabolico, qualcosa che sfugge sempre alla presa del pensiero, allo scambio nel concetto, ha fatto di tutto perché la sua scrittura si volatizzasse subito dopo esser apparsa. Del movimento incessante del suo pensiero è difficile ricavarne un sistema, o qualcosa di funzionale. Amante dei paradossi e delle vertigini ha fatto della scrittura l’equivalente di un moto browniano: nulla è stabile, ma tutto è incessantemente rimesso in gioco, metamorfizzato, ricontestualizzato… “O una cosa non vale nulla, o una cosa ‘non ha prezzo”, amava dire. Espressione che fa transitare la scrittura dal contratto del senso (il valore) cioè la sua spendibilità, a quello del patto. “L’intelligenza del male” – uno degli ultimi suoi libri - sta tutta in questa espressione chiave, che in altre parole significa che noi siamo sempre in ritardo sulla stupidità, perchè ci precede sempre. Un frammento di Cool Memories V su questo è ancora più esplicito: “Il Patto di lucidità o l’intelligenza del Male avrebbe potuto ben chiamarsi – apofanticamante – L’Impatto della stupidità o l’inintelligenza del Male”. E “Patto” significa complicità, abolire la convenzione astratta tra due termini o tra due situazioni per favorire una realizzazione duale come accade in alcune esperienze poetiche. L’intensità del piacere di una parola poetica va al di là o al di qua della sua denotazione o della sua significazione, stessa cosa per tutte le altre situazioni della vita. Occorre scavalcare il muro del senso, il muro del valore, “bypassare” il sistema canonizzato della comunicazione, di qualunque specie esso sia fatto, realtà virtuale compresa, nuova forma di comunicazione convenzionale. Perchè per Baudrillard il potere si fonda sulla base della produzione del senso, per questo amava gli anagrammi, i processi di “terminazione del valore” o come mi disse recentemente a proposito di Warhol: “brut de dèchiffrage”, ciò che resiste al significato, irriducibile allo scambio nel valore. La sua passione per la Patafisica prende origine da tale volontà di polverizzare il valore, di annientarlo come accade nel Witz freudiano, la battuta di spirito che smonta la seriosità pedantesca dei burocrati del sapere.
Aver pensato la sparizione della realtà gli è costato molti equivoci. Prima fra tutti quello di essere scambiato per nichilista. Per gli idealisti che guardano al pensiero come si guarda a una porcellana o per coloro che nascondono i valori dei concetti nel loro piccolo salvadanaio, Baudrillard era certamente un disfattista e dunque un nichilista. I tribunali cambiano nome, aspetto, ma non abbandonano la loro funzione di agenzia di controllo.

Ma è soprattutto in certi ambienti universitari che Baudrillard viene incorniciato come nichilista. La sua impietosa analisi della società dei consumi, che è stata preceduta da un’altrettanta impietosa analisi dell’illusione politica marxista, quando questa era divenuta più che un progetto politico, una religione, ha fatto si che il suo pensiero venisse tenuto a distanza di sicurezza. Ma Baudrillard è stato davvero un nichilista? Rileggendo i suoi testi, i conti non tornano. Un esempio può essere tratto dalla sua analisi del marxismo secondo la quale si era vaporizzato in un concetto universale, perdendo la perspicuità dell’analisi delle contraddizioni. Ciò che il marxismo guadagnava in segno spendibile sul capo dei concetti universali, lo perdeva in efficacia di analisi delle contraddizioni del capitalismo contemporaneo. In effetti quando Baudrillard criticava il marxismo lo faceva radicalizzando l’uso dei suoi concetti critici, li applicava contro questi stessi concetti: “Che il concetto di storia sia storico, che il concetto di dialettica sia dialettico, che quello di produzione sia prodotto (passibile cioè di una sorta di auto-analisi) non è tautologia: traccia semplicemente la forma esplosiva, attuale, mortale dei concetti critici”. Queste parole risalgono al 1973, al tempo de Lo specchio della produzione, un libro, come mi ha confessato, a cui non teneva molto. Tuttavia questo libro predisponeva il passaggio definitivo nell’ottica dello scambio simbolico, e vi affioravano già parole chiave come simulazione, radicalità della parola, sparizione, etnocentrismo del codice, che saranno decisive per lo sviluppo del suo pensiero.
Ciò che Baudrillard prendeva di mira non era la portata utopica del marxismo, ma il fatto che la macchina teorica dei suoi concetti già a partire dagli anni ’60 aveva preso una piega canonica, era entrata a far parte del “modo di produzione del sistema” cui essa originariamente si rivolgeva per smantellarne l’impostura. Da concetti critici si erano trasformati in concetti-segni, “significanti”, erano cioè caduti “nell’immaginario del segno” e più in là erano entrati a far parte della sfera più ampia della simulazione, che sarà alcuni anni dopo uno dei punti cardini de Lo scambio simbolico e la morte. Alla prospettiva di vedere l’uomo diviso tra l’alienazione e l’illusione di una presunta soggettività liberata, Baudrillard in quel periodo opponeva la radicalità dell’utopia. Non credeva in un altrove della rivoluzione, né in una proiezione immaginaria del soggetto nella conquista del potere, che sarebbe stato in ogni caso un cambio di posizioni. E tutti i revisionismi che inizieranno a prendere il volo a partire dagli anni ’80 confermeranno questa tesi di Baudrillard. Se la sinistra agonizza è perché è costretta a negoziare il suo ingresso nell’“orgia del potere”, e dunque ad abbandonare i presupposti che la motivavano. Oggi queste cose sono tristemente chiarissime. L’utopia era per Baudrillard già la risposta alle accuse di nichilismo: “Ogni uomo è qui tutto intero ad ogni istante. Anche la società è qui ad ogni istante. Courderoy, i Luddisti, Rimbaud, i Comunardi, la gente degli scioperi selvaggi, quelli del maggio ’68: non è la rivoluzione che parla in filigrana, essi sono la rivoluzione; non ci sono concetti di transito, la loro parola è simbolica, e non cerca l’essenza – è una parola che precede la storia, la politica, la verità, che precede la separazione e la totalità futura – la sola che, parlando il mondo come non separato lo rivoluzionano veramente”. Queste parole chiudono la fase critica e semiologica di Baudrillard e prospettano già quella successiva dello scambio simbolico. Anche in questo caso il rischio di cadere in un equivoco di fondo è forte: le analisi sulla società postmoderna rilevano che questa è una società nichilista, poiché è una società basata sulla dissuasione e sulla simulazione. Il nichilismo non è soltanto quello tradizionale della distruzione, piuttosto oggi, come ha più volte fatto osservare Baudrillard, la sua versione aggiornata è quella della trasparenza, della scomparsa del reale. Anche in questo caso constatare ciò non significa identificarsi con l’oggetto osservato. Il nichilismo tradizionale non coglie lo stato aleatorio della contemporaneità, perché è ancora una teoria che implica un rapporto di causa-effetto. Mentre, oggi, nella prospettiva di Baudrillard, è l’effetto irreferenziale che stabilisce la condizione di indeterminatezza della società iperreale. La società dei consumi degli anni ’60 e ’70 era ancora una società della “crescita”, quella che si genera a partire dagli anni ’80 e che arriva fino a noi è una società dell’”escrescenza”. Dire tutto ciò non significa essere nichilisti, ma piuttosto realisti.
Se l’ombra dell’ironia che ha accompagnato molte sue riflessioni ha dato fastidio, non è per colpa dell’ironia, ma della stupidità di chi s’è sentito irriso…Occorre ribadirlo: ”siamo sempre in ritardo con la stupidità”, ed è in questa disposizione ironica e dissacratoria che l’immagine della storia assume la fisionomia di una figura da commediante: “la storia è diventata una bambola gonfiabile, e l’umanitarismo il suo preservativo. La bambola gonfiabile sta al desiderio, come l’umanitario al pensiero. Ogni problema ha quindi la propria soluzione gonfiabile, fatta dal fallimento storico del desiderio”.


Preferiva vivere a lato dei fenomeni, la vicinanza lo infastidiva, nella distanza si sentiva a suo agio. Era uno di quegli esseri per cui la storia o il senso che l’uomo attribuisce alle cose potevano pure non esistere, il mondo sarebbe stato così ancora più magico. Amava le cose dissimili e gli universi paralleli come quello della Patafisica di cui ne è stato dopo la morte di Baj l’ultimo grande Satrapo. La Patafisica nelle sue mani diventava un’arma micidiale per il pensiero, e questo non gli è stato perdonato. Ma a Jean non importava. Amava Borges, i sui labirinti fatti di immagini che si perdono in altre immagini, e anche per il suo bestiario ideale. Era orgoglioso che il suo nome iniziasse con la B, la lettera che accomuna Baudelaire, Benjamin, Brecht, Barthes, autori da cui non si è mai staccato. Vedeva il mondo sempre come se fosse riflesso in uno specchio, che si divertiva a deformarlo, ad anamorfotizzarlo, e a volte a prenderlo alla lettera per scoprirne il ridicolo che cela.

Quando venne a casa mia nel 2000 in occasione di un convegno che curai per l’accademia di belle arti, discutemmo su svariate cose, l’equivoco Foucault ( mi disse che non ce l’aveva con Foucault ma con il mito che gli ronzava intorno), Klossowski, Barthes, la fotografia, il vuoto…alcuni frammenti di queste conversazioni le ho conservate, avevamo progettato di farne un piccolo libro corredato da foto scattate durante il viaggio a Palermo – soprattutto sulla villa Palagonia, la villa dei mostri (situata nel cuore di Bagheria) che tanto lo affascinò per via di un sistema di specchi concavi posti sul tetto della sala da pranzo, che riflettevano l’immagine distorta di tutti coloro che vi si specchiavano. E di specchi Baudrillard se ne intendeva. Per il suo Cool memories IV mi chiese se gli traducevo in francese l’epigramma che sta all’ingresso del salone degli specchi, che utilizzò poi in un frammento sulla villa Palagonia:
Specchiati in quelli cristalli
E nell’istessa
magnificenza singular
Contempla
Di fralezza mortale
L’immago espressa


Scriverà poi in Cool memories IV:
“la farandola di mostri del parco e della villa stessa è oggi circondata, nel cuore della periferia di Palermo, da una mostruosità ben peggiore, quella dei palazzi di cemento e della frenesia del traffico automobilistico, dal rumore a dal furore moderno…”

Quando andai a prenderlo all’aereoporto la prima cosa che mi chiese, era se lo portavo alle catacombe dei Cappuccini. Gli dissi che la morte era sempre tra i suoi pensieri preferiti: mi attrae la forma che essa assume nell’immaginario degli uomini – mi rispose -, la forma che riveste in assenza del referente e dunque come alla fine è questa assenza fatale ad aver l’ultima parola. Non é la morte in quanto cadavere ad attrarmi ma l’irriducibilità simbolica della sua esistenza. Quella stessa irriducibilità che ho provato quando alcuni giorni prima dei funerali previsti per martedì 13 marzo, mi è arrivata la comunicazione della sua inumazione. La lettera conteneva una fotografia di Jean mentre si fotografa allo specchio nudo. Le ombre lo avvolgono come una nube barocca e lui è riconoscibile soltanto dall’inconfondibile dettaglio di una parte della testa stempiata e dalle mani che impugnano la fotocamera. Quel dettaglio dell’occhio artificiale rivolto verso di noi – lo specchio - descrive tutto Baudrillard. Come dice Barthes, che Jean amava, è un punctum: io sono attratto da qualcosa che tuttavia sfugge alla presa del pensiero. Dietro la foto, forse, l’ultimo aforisma di Baudrillard: L’existence n’est pas tout. C’est meme la moindre des choses.



La scorsa estate ci siamo sentiti spesso, gli ho chiesto due testi, uno per Cyberzone sulla fotografia e uno per il catalogo Skira che avrebbe corredato una mostra di Warhol che si è poi realizzata a Roma. In una di queste telefonate mi disse che .

Estraggo qualche frammento mai pubblicato delle conversazioni che facemmo a suo tempo –alcuni segmenti dell’intervista sono apparsi nella rivista Arte e Critica qualche anno fa.

M. F. Hai preso familiarità col frammento, cosa significa per te?
J.B. Sono stato germanista e conosco un po la pesantezza dei grandi sistemi tedeschi. Sono un vortice che risucchia, ti soffoca…ma amo Brecht, Nietzsche, Holderlin che ho tradotto in francese, la loro forma mi affascina molto. Ma per un certo periodo me ne sono allontanato. Dopo Lo scambio simbolico e la morte e a partire dal libro sulla seduzione il frammento ha cominciato a entrare nel mio modo di scrivere. Si può constatare lo scarto che c’è tra Lo scambio simbolico e la morte e Cool memories. Nel primo libro le cose sono esposte in forma teorica, il secondo si dispone secondo una costellazione di frammenti, di aforismi. Il frammento ha preso a interessarmi quando ho visto che ciò che metteva in gioco era una volontà di sgrassare al massimo i pensieri e le idee, di ricondurle al nocciolo, alla loro particolarità che è anche una forma di irriducibilità…la scrittura aforistica non ha una legittimità filosofica o letteraria, ed è proprio questo ad interessami, è una scrittura non referenziale, ma preferenziale. Nel frammento si è soli, nei pensieri si è sempre con altri. In fondo nel mio lavoro non mi sono mai posto la questione della referenzialità – di per sé molto complessa. Il frammento è un’approssimazione al vuoto, un modo di sparizione, si tratta di fare della sottrazione una forma, quello che faccio non è estraneo a un certo pensiero orientale come quello di Ciuangzè.
Il silenzio della fotografia raccoglie qualcosa di questa sottrazione, essa espone la sua inutilità radicale.

M. F. Che rapporto c’è tra questa sottrazione e la dimensione simbolica?
J. B. Il frammento ha in comune con lo spot e il clip la rapidità, l’instantaneità, un’esistenza effimera, ma questa comunanza non basta a metterle sullo stesso piano. Aphorizein signbifica separare, isolare, si tratta dunque di creare uno spazio esclusivo, uno spazio simbolico, un vuoto. Mentre le nuove tecnologie che supportano gli spot, ad esempio, si basano sulla continuità, sulla ramificazione, sulla distribuzione nello spazio delle reti. Nel dettaglio aforistico il mondo è perfetto. E’ quello che accade con la fotografia: la sua parzialità è la sua compiutezza. Essa è una sfida all’immaginario integrista perché gioca con la singolarità delle cose fotografate. Essa riporta l’enigma nel mondo, il segreto della sua esistenza. La lingua che si diffrange nell’aforisma, che si perde nel dettaglio ritrova qualcosa di questo segreto, che attrae e seduce.


Marcello Faletra


Articolo tratto da: Laboratorio sociale occupato zeta - ZetaLab - Palermo - http://www.zetalab.org/
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