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La Resistenza Viene Prima!!!



Sempre il Giovedì - 21.30
ing: 1 euro

"Ne' Qui ne' Altrove"

Ci sono voci che non si possono non ascoltare, vite e percorsi che non si possono non conoscere. Questa rassegna e' dedicata a loro, a tutte quelle voci, quelle vite e quei percorsi, a tutti quelli che fanno enorme fatica a farsi ri-conoscere nonostante siano li, a pochi passi dal nostro sguardo.

C'e' una parte d'umanita' che si muove nel mondo valicando i confini ad essa "non consentiti", sfidando le leggi del potere costituito, delle politiche dominanti, gente che resiste alle calunnie e alle offese inflitte, a quelle lacerazioni manifestazioni dirette delle potenze globalizzate. E' l'umanita' in surplus, umanita' pericolosa, la sub-umanita' .
Le lotte per l'egemonia del mercato globale investono l'economia, la politica, la cultura, la societa' per intero, attraversano i corpi e le relazioni e nonostante la loro spinta distruttiva sono processi che si arrestano, fanno fatica e arrancano sul terreno di lotta della resistenza. La resistenza e' la forza che gli uomini scoprono, ritrovano di fronte al tentativo di cancellarli, la forza per continuare a riflettere e a progettare, non smettendo di essere forme di pensiero autonomo, forme di resistenza. Sono forme sempre piu' "vicine di casa" che compenetrano e contaminano il nostro modo di essere nel mondo fino ad intersecare e influenzare le nostre stesse strutture di pensiero. Ognuna di queste forme fornisce una lettura reale dei dislivelli planetari della distribuzione del reddito, dell'accesso alle risorse, delle forme di guerra, processi che manifestano tutta la loro contraddizione e che finiscono con il concretizzarsi in precarie condizioni di vita di intere popolazioni.
Le storie raccontate in questa rassegna sono trasversalmente attraversate da dinamiche di disagio, di negazione dei diritti, da meccanismi di guerra, da quelle "sconvolgenti accelerazioni e negazione dell'altro"-per dirla con Marco Revelli- che si giocano su terreni duramente conflittuali. Sono storie che raccolgono i segni del potere, segni che si tatuano sul corpo, lungo i passi stanchi, ma ancora solidi che trascinano verso la ricomposizione della propria dignita' e della difesa dell'inalienabile diritto all'esistenza. Quindi storie di resistenza, dedicate a quella parte di umanita' che non ha ancora rinunciato ai propri sogni, nonostante i tentativi di farli abortire, portatori e principali creatori di un "fare societa' " che muove dal mettere in gioco la propria vita, dall'agire senza intermediari, dall'operare e raggiungere, magari, una dimensione in cui sia possibile un mondo dai diritti garantiti per tutti. Per dirla come l'uomo che assume il nome di Subcomandante Insurgente Marcos "un mondo in cui c'e' posto per tanti mondi, un mondo che sa essere uno e piu' di uno". Un mondo in cui per tutti e per sempre si dichiari inviolabile il diritto di ognuno di essere quello che e', cio' che si propone di essere, senza l'imposizione di raggiungere nient'altro che la propria aspirazione.


8/3/2007

COSE DI QUESTO MONDO


(In This World)

Regia: Michael Winterbottom


Gran Bretagna 2002








Recensione

Ogni anno nel mondo milioni di persone decidono di lasciare il proprio paese perchè costrette da guerre, fame, povertà, persecuzioni o semplicemente spinte dal desiderio di una vita migliore. Di queste, la maggior parte resta nella regione di provenienza, in attesa di tempi migliori per fare ritorno a casa. Una piccola parte decide di tentare la sorte e spingersi nel ricco mondo occidentale: ma al posto delle meraviglie della “civiltà” e della fine delle difficoltà sperate, trova ad accoglerli un'ostilità “sistemica” che trasforma quelle linee labili ed immaginarie che sono i confini in barriere e muri concreti e simbolici; l'Europa si trasforma in fortezza, costringendo l'umanità in fuga a calarsi nella dimensione ambigua e pericolosa della “clandestinità”. Migrare diventa una scommessa nella quale si mette in gioco tutto, con il rischio di ritrovarsi, anche se vincitori, con le mani vuote e la posta volatilizzata.

In questo film Winterbottom descrive tale realtà, seguendo il viaggio di due giovani rifugiati afghani, Jamal ed Enayat: percorriamo insieme a loro i tortuosi e complicati sentieri che portano dal campo profughi in Pakistan alle strade luccicanti di Londra, passando attraverso diversi paesi, asiatici ed europei. Ma il cammino non è lineare e a poco a poco si trasforma in un vero e proprio percorso ad ostacoli, una moderna Odissea in cui il succedersi di confini e barriere segna le tappe e le svolte obbligate, in cui l'avidità o la spietatezza di guardie di frontiera e trafficanti di uomini e l'indifferenza di cittadini benestanti costituiscono delle prove da affrontare, con il rischio di mandare in fumo il sogno ad ogni passo. E così lo spettatore è immesso in un “road movie” della disperazione, tra soste e improvvise ripartenze, sballottato di volta in volta tra passaggi in auto e partenze in camion, percorsi a piedi, tragitti in bus e traversate in nave, dove gli unici momenti di riposo e spensieratezza sembrano essere costituiti dalle partite a pallone in campi improvvisati (forse l'unica cosa uguale a tutte le latitudini), e dalla solidarietà di persone che condividono un pezzo di strada. Concepito prima dell'11 settembre e girato tra molte difficoltà, il film prende la forma mista di una docu-fiction, realizzata con attori non professionisti scelti nei campi profughi, utilizzando la tecnica agile e scarna che permette il digitale, senza illuminazione artificiale e con scenari interamente naturali: scelte estetiche che si rivelano particolarmente azzeccate nelle scene in cui maggiore è la necessità di identificazione tra spettatore e protagonisti. Per finire ecco le parole del regista che riassumono il senso del film: "credo che se la gente avesse la possibilità di sapere ciò che tutte queste persone sono costrette a sopportare e ad affrontare prima di arrivare nel nostro Paese, forse avrebbe maggior rispetto nei loro confronti".

Per approfondimenti vai qui


Nino Termotto


15/3/2007

Paradise Now


Regia:Hany Abu-Assad


Germania / Francia/ Olanda, 2005







Recensione

"Thriller realistico" definisce la sua pellicola il regista Hany Abu-Assad. Film patrocinato da Amnesty Internationale, Paradise now segue l’intimo universo di due ragazzi palestinesi, che scelgono di sacrificare la propria vita per una Palestina libera. Senza sfumature ideologiche, né pregiudizi, né retorica, il film mostra una sequenza di stati che permette di allungare la nostra visione nell’intimità dei conflitti, negli amori, nei dubbi profondi, nelle ultime “battute di vita” di due ragazzi che si apprestano a diventare kamikaze, offrendoci così l’opportunità di scrutare le intime motivazioni che spingono due giovani a immolarsi per la causa palestinese da un punto di vista privilegiato, quello dei due protagonisti, senza ombre di compatimento né inneggi all’eroismo. Secondo le parole di Abu-Assad, il film ci offre la possibilità di "sfatare sia il mostro che il martire per puntare alla dimensione umana, conscio che finchè non si arriverà a dare gli stessi diritti ai palestinesi, ragazzi pronti a diventare kamikaze saranno sempre disponibili".

La conoscenza di alcuni frangenti della quotidianità di Said e Khaled e il conflitto interiore che in loro emerge quando si preparano a concretizzare la loro azione di morte, disegna una cornice all’interno della quale non è possibile smarrire la realtà e l’umanità dei due protagonisti. L’azione, nonostante la sua violenza, diventa connotata umanamente, perché umane appaiono le ragioni che portano a consumarla.


Abbiamo rischiato la vita per girare il film e, se devo dire la verità, tornassi indietro non lo rifarei, è stata un’esperienza traumatica”, dichiarava il regista in un’intervista l’autunno scorso. Sicuramente lavorare indisturbati all’interno dei Territori Occupati, dove la mobilità degli abitanti è continuamente controllata e spesso repressa dai militari israeliani, per documentare le ultime 48 ore di vita di un aspirante kamikaze, senza scene di condanna e criminalizzazione dell’azione…immaginiamo, sì, che non sia stata un’impresa facile.

Il film è stato girato tra Tel Aviv e il territorio occupato di Nablus, città flagellata dal muro dell’apartheid e puntellata dai check-point israeliani.

Angela

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22/3/2007

Salaam Bombay


Regia: Mira Nair


India 1988









29/3/2007

Recensione

Krisnà, appena 10 anni, un bambino in una città troppo grande, in una città che ha perso i suoi confini fisici, che li nasconde a chi vi si trova spietatamente immerso, che non lascia via di fuga. Bombay, i suoi sottoborghi, le esistenze ombrose di dimenticati pezzi di umanità e le spavalderie di chi si trova costretto a giocare il ruolo del più forte in una società che sembra ammettere come unica forma di protezione quella del magnaccia.
La resistenza di un bambino, l'ostinazione del desiderio di ritorno, di rottura di quegli invisibili confini, di uscita dal cerchio magico di una violenza alla quale si mescolano senza possibilità di discernimento amore e amicizia. Una lealtà d'affetti negata, contraddetta dalle falsità alle quali cedono e credono tutti i peronaggi di una storia invece troppo vera.
Gli atti di rivolta di Krisnà sono continuamente sedati, i suoi tentativi di aiuto vanificati dalla irriducibilità di un sistema sociale che tiene tutti inchiodati ai propri ruoli. Il piccolo villaggio sognato diventa il non-luogo in cui sublimare le difficoltà vissute in un luogo così reale da sembrare un incubo. In cui proprio nel tentativo estremo, ultimo, di fuga, nel dar sfogo all'estremo bisogno di alternativa, di uscita dai confini di ogni prigione, di ogni schiavip smo, si è già sicuri di perdersi e ritrovarsi soli a non pensare più, a non saper più giocare, a piangere.
Alessandro Scibetta

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Il Cerchio

(Dayereh)

Regia: Jafar Panahi


Iran/Italia 2000
5/4/2007

Recensione

``Le otto donne de Il cerchio in realtà compongono il ritratto complessivo di un'unica condizione femminile, come se fosse la storia di una sola donna: che sin dalla nascita è considerata una disgrazia, che nell'adolescenza impara a nascondersi e sa di essere colpevole di qualcosa che non conosce, che diventata donna può trovarsi incinta di un marito giustiziato, cacciata dalla famiglia, impossibilitata ad abortire perché priva dell'appoggio di un uomo, che come ragazza madre è costretta ad abbandonare la figlia perché anche lei non sia una esclusa, fino a che non le resta che scendere nel più basso gradino della società, prostituendosi'' (Jafar Panahi).

Il cerchio è quella figura geometrica in cui ogni punto è tanto l'origine quanto la fine: andare avanti è tornare al punto di partenza. Prigioniere di un inutile e assurdo movimento circolare, queste otto donne iraniane sono condannate a tornare da dove sono venute (la galera) e a dare alla luce figlie, anch'esse destinate ad agitarsi inutilmente nel cerchio, metafora di una condizione che non ha alcuna possibilità di riscatto. Le donne di Panahi non provano neanche a venirne fuori, se non agognando una fuga verso un luogo lontano, immaginato come un paradiso di felicità. Mentre esse sono impegnate a nascondersi o a fuggire, chi tiene le trame delle loro vite e le osserva spostarsi da un punto all'altro del cerchio è lo stato, mai nominato ma onnipresente nelle sue diverse forme: la polizia, la religione, l'ideologia, la tradizione. Lo stato che si manifesta nel linguaggio cinematografico attraverso il frastuono compatto che domina le strade di Teheran, una presenza insieme inavvertibile e oppressiva come il muro nero della prigione su cui termina la panoramica circolare che conclude il film. ``Tutti nel mondo - dice Panahi - vivono dentro un cerchio. Per problemi o tradizioni economiche, culturali o familiari. Il raggio del cerchio può essere più o meno lungo. Non conta la collocazione geografica, tutti vivono dentro un cerchio. Spero che, se il film può esercitare una qualche influenza su qualcuno, lo induca a cercare di allungare il raggio''.

Arianna Triolo
approfondimenti

Grbavica

(Il segreto di Esma)

Regia: Jasmila Zbanic

Austria, Bosnia-Herzegovina, Germania, 2005






"Grbavica" e' un film che in modo austero tenta una difficile narrazione: Esma lotta per sopravvivere in una realta' sfigurata dalla guerra. Esma non puo' rimuovere il passato e le violenze subite perche' giorno dopo giorno il passato lo deve fronteggiare: Sara - figlia di questo passato che Esma non ha voluto rimuovere. Sara e' anche forse l'unico riferimento rimasto ad Esma. Ed al tempo stesso Sara e' il passato che raggiunge il presente e si apre al futuro.
Il passato, nel radicare il presente, lo contamina e lo pervade di un conflitto interiore nel momento in cui Esma come madre vuole riconoscere Sara e nel riconoscere Sara deve - questo passato che raggiunge il presente - affrontarlo e continuamente confermare la sua coraggiosa scelta che non si piega alla negazione ed alla rimozione. In questo conflitto interiore - la guerra che raggiunge il subconscio e lo sconvolge - Esma e' sola: il pianeta maschile e' alieno o degenere mentre Sara mostra una identita' precaria che riflette la lotta per la sopravvivenza che quotidianamente Esma deve affrontare.
Solo una rete di solidarieta' declinata al femminile sembra essere un -debole - sostegno.

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