La fuga è un cinema che si riscopre.
Il cinema è una fuga che ci perde.
Bisogna partire da questo apparente ossimoro per de-viarsi, deragliare verso possibili destinazioni sconosciute, lasciarsi intrappolare dal tempo che fa posto al movimento. E' vero che il movimento fisico-neuronale-ormonale di Fuori Orario diventa un tutt'uno con la durata di un cinema che, sebbene non dà a vederlo, tuttavia sta alla vita reale così come essa sta a se stessa; ma la misura che presuppone tale rilevamento (come a dire ri-scoperta) è l'ansia che qualcosa possa sfuggire, proprio all'interno del film stesso, cone se la fuga, il suo concetto apparente, si raddoppiasse. Ed ecco che da inseguitori si diventa prede, come in una bellissima scena di Memento, da servi si diventa padroni (ma poi lo si è mai veramente?) solo nell'attimo in cui i nostri migliori amici, o presunti tali, ci tradiscono con la leggerezza assassina di Jacques Becker.
Un altro sentiero che porta in nessun luogo, nè lontano nè vicino, altrove. Si privilegia il movimento come metafora della ricerca solo per constatare che ogni ricerca, appunto, è finalizzata esclusivamente a se stessa, non alla vera e propria fuga (ma poi da chi o da cosa? Forse dalla propria nevrosi, forse dalla noia, forse dalla paura o dai ricordi che fanno paura, ritornando a Memento...) ma dal non sentirsi umano. Esisterebbe la fuga senza la prigionia? Non certo negli stessi termini con cui siamo abituati a raffigurarla. Infatti nessuna fuga è tanto pregnante quanto quella che segue a una reclusione ingiusta e oppressiva, solo così ne viene stigmatizzata al più la carica liberatoria e la funzione anti-reclusiva. Di certo ogni fuga segna un punto di non ritorno, sia per chi ne progetta attentamente lo svolgersi (il buco) sia per chi ne resta coinvolto suo malgrado (Gloria, Fuori Orario, 1997: Fuga da New York) sia per chi fugge dalla vita perchè è l'unico modo per dimostrare (a se stesso) di essere vivo (A Bout de Souffle).
La natura cinematografica della fuga, la sua rappresentazione, è sempre una natura politica in virtù del fatto che viene messo in discussione un concetto così variegato e controverso quale è quello di libertà.
Eppure il cinema, in quanto mezzo comunicativo dominato-controllato da una serie di figure ben presise (regista, sceneggiatore, scenografo, direttore della fotografia...), è necessariemente imprigionato nelle maglie significative della categoria a cui afferisce, dunque non libero, o libero solo apparentemente. E' questa l'ambiguità straordinaria dell'arte\industria filmica così come ognuno dei protagonisti dei film già citati è di per sè ambiguo nel momento in cui si trova ad interagire nel set. Ma, per spingerci ancora più oltre, è lo stesso set ad essere fonte e causa prima di incertezze comunicative, perchè, a pensarci bene, nel momento in cui una porzione di realtà si trasforma in luogo -immaginario- dell'immaginazione -reale- ci si trova davanti ad un melange di funzioni che de-strutturano l'univocità caratterizzante la norma. Il set, da realtà-movimento diviene, in corso di sviluppo-stampa-montaggio-sincronizzazione, immaginazione-statica.
La dialettica stasi vs. movimento è lo specifico cinematografico, Deleuze insegna, ma, ci preme sottolineare che, nel suo mescolarsi\fondersi col concetto di fuga ecco che le parti in causa si ribaltano in stasi-prigionia vs. movimento-fuga-libertà. Per questo il cinema in fuga è una riflessione politica libertaria molto più di qualsiasi film dichiaratamente "impegnato": nel nostro caso non si tratta di alcuna concettualizzazione di programma ma di pura forza espressiva, nell'altro di film a tema con sbandieramenti faziosi, benchè a volte condivisi(bili).
E' hiaro che, sin dalle origini, il cinema ha puntato alto; almeno da Melies in poi si è scoperta la natura fantasmatica delle immagini-movimento, perchè allora non sfruttare questa possibilità fino al suo estremo?
E'una domanda che ci poniamo da tempo, da quando il cinema italiano (ma non solo) ha smesso di osare per cristallizarsi in storie scialbe di turbamenti piccolo-borghesi e intimismi vittimisti. Questo sentirsi vittime, questo volere sentirsi vittime è la negazione completa della forza espressiva di cui sopra, è la negazione totale della propria libertà, è mancanza di coraggio, povertà di immaginazione, carenza di fantasia, reclusione, povertà d'idee, caduta
caduta, ca du ta. . .Massimo La Magna