L'immagine di questo film visto e rivisto riemerge in me confusamente, benché Le Trou sia un'opera estremamente limpida e rigorosa. J. Becker attinge inconsapevolmente alla dimensione arcaica e primordiale dell'umano. Quali sensazioni, forme e ricordi inconsci può suscitare una parola come 'buco'? Essa richiama la penetrazione, la perforazione, il trivellamento. L'uomo, che al momento della nascita fuoriesce da un buco allargatosi per la necessità, passa il resto della sua vita a tentare di rientrarvi. Dentro la terra si celano immensi tesori: l'acqua, l'oro giallo e l'oro nero, le radici e i morti. E' necessario creare un buco e scavare perché uno schizzo zampillante d'acqua possa dissetare l'uomo e concimare la terra. Dietro il buco si cela qualcosa, che un istinto irrefrenabile alla conoscenza impone di scoprire. Sbirciare si deve. Oltre lo stretto di Gibilterra o nel profondo di una grotta afgana un altro mondo misterioso e mitico si tiene segreto, un cosmo sconosciuto e pauroso.
Vi risparmio la metafora del 'buco' della cinepresa per passare all'oggetto in questione: Il Buco, appunto, ultimo film di J. Becker, girato nel 1960. L'allievo di Renoir realizza un'opera magistrale, perfetta, conchiusa. Attraverso uno stile essenziale, a tratti bressoniano, dipinge un'atmosfera, quella del carcere, realistica e al tempo stesso magica. La macchina del carcere, i cui ritmi vengono scanditi da un occhio/orologio sempre attento, si installa all'interno di un edificio fatto di piccole celle, stretti corridoi, cunicoli impraticabili. Scardinare una macchina così perfetta è nella mente e nelle mani dei cinque protagonisti, i quali, nel progettare un'evasione che abbisogna di un lavoro quotidiano (anzi notturno) e di una pazienza infinita, tentano una fuga mirabolante.
Nel Buco è evidente la denuncia totale e radicale del carcere come espressione massima della spietatezza del potere. Il motore del film è l'irrefrenabile istinto di libertà, insito nella natura umana. Tuttavia è sempre in agguato un altro istinto, speculare al primo, ma altrettanto naturale, l'istinto al tradimento. E' qui che Becker compie un salto dal piano sociale a quello "universale", direi antropologico. All'interno del carcere tutto diventa estremo, perché estrema è la condizione dei prigionieri. Becker compie un'operazione di progressivo assottigliamento delle qualità umane (l'amicizia, il desiderio di libertà, il tradimento), fino a farle stridere tra loro senza alcuna possibilità di mediazione. E' questo, a mio avviso, l'elemento non comune che fa di questo film un capolavoro: i sentimenti umani vengono posti l'uno di fronte all'altro in uno scontro titanico dagli esiti imprevedibili. Ma ancora più attraente in questo film è la leggerezza che Becker riesce ad imprimere alla narrazione, una leggerezza tuttavia che non tradisce l'intento realistico di fondo.
Il buco nel film è quello spiraglio dal quale si intravede la libertà, lo spioncino della cella attraverso cui sorvegliare gli aguzzini con uno spazzolino da denti, la cella nel quale i nostri sono destinati a marcire, la voragine dentro cui potreste cadere dopo aver visto il Buco. Io non mi sono ancora ripreso. Buona risalita.