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P-Ossessioni diaboliques.

Dei film, in genere, si può dire molto. Si possono scrivere risme di fogli A4 e non aver paura d'esagerare perchè un film è contemporaneamnere realtà e rappresentazione. Per vizio intellettuale, in più, siamo stati abituati da certa scuola francofona, a indicare, di una pellicola, l'autore nel regista; colui che, alla stregua di Annibale è alla testa di un esercito (troupe=truppa) e lo comanda con determinazione e accanimento. In effetti tutto questo può dirsi vero nella maggioranza stragrande dei casi, mi viene da pensare, così en passant, a Kubrick, Rohmer, Hitchcock, Vidor, Wilder, Greenaway... In questi casi è quasi automatico reputare, in via del tutto conformista e gerarchizzante, che l'autore è effettivamente il regista. A volte, tuttavia, il cinema si burla di noi e pare contraddire le certezze di cui sopra.

Andrzej Zulawski è una figura sfuggente, che ha lavorato tra mille difficoltà (non ultima la terribile censura polacca che lo obbligò, alla fine degli anni settanta, a trasferirsi in maniera piuttosto avventurosa a Parigi, oggi sua seconda patria), anche produttive, che ha passato lunghi periodi in sordina magari a scrivere. Zulawski che è anche compagno (di vita e di set) di Sophie Marceau (anche lei, in certo modo "ingannata"), Zulawski figlio d'uno tra i più importanti poeti polacchi contemporanei, Zulawski come Roman Polanski ma più legato alla vecchia Europa (per amore o per necessità?). Chi è in realtà costui? Un genio incompreso, un talento sottovalutato oppure un avventuriero senza patria, un figlio d'arte che raccoglie le briciole dell'immaginario paterno? Di fatto, è piuttosto difficile rispondere, vista l'esiguità del materiale disponibile in lingua italiana, soprattutto a livello bibliografico. Ci piace immaginarci questo personaggio un pò come l'Heinrich di Possession, posseduto, non dal diavolo o da dio, ma dall'idea stessa di "visione", come a dire, dal flusso vorticoso della vita (che al cinema procede alla velocità illusionista di 24 fotogrammi al secondo). Uno che non riesce a reggersi bene in piedi e che parla per enigmi anche se non sa bene perchè lo fa.

Proprio in quest'ottica, messianica e oltraggiosa al contempo, Zulawski acquista l'agognata palma d'autore per perderla immediatamente dopo col film Femme Publique che già pare auto-citarsi ed essere "Zulawskiano". Possession, insomma, è un'opera maledetta e incontrollabile, una forma parassitaria scappata dalle mani del suo creatore che diviene, a livello organico, simile a qualcosa di già esistente fino a rubarne l'involucro. Possession è un film multiplo, che vira da una banale storia di corna a tematiche metafisiche e spirituali dalla portata immensa, e lo fa con una naturalezza irritante per noi abituati ad un cinema che si giustifica di sè, scena per scena. Stavolta non si spiega nulla, anzi, da una situazione A consueta e ben delineata si arriva alla situazione B dove le premesse non vengono rispettate fino alla destrutturazione totale e apocalittica (C). In questo caso la follia non viene solo narrata ma anche la struttura del film, seguendo i percorsi interiori dei protagonisti, ne rimane invischiata, come se la macchina da presa cessasse di essere semplice spettatrice impersonale per entrare anche fisicamente nella fabula. Come spiegare altrimenti le rotazioni estenuanti e prive di senso della cinepresa e i suoi movimenti isterici e capricciosi?

La degenerazione dell'amore si palesa fin dentro la carne, non c'è alcuno iato tra il pensiero e la corporeità, basta vedere una sola scena in cui appare la Adjani per renderese immediatamente conto. Questo meccanismo mostruoso che è (in) Possession ha vita a sè. Un film doppio, dunque, dove è la rappresentazione a sdoppiarsi, oltre che i personaggi. E' uno dei casi limite di questa personalità scissa del cinema come uno specchio infedele che ribalta un'immagine e vivificandola mette in mostra i suoi limiti. L'alienazione del set (niente a che vedere con la Berlino wendersiana, per esempio) crea lo spostamento, a livello allucinatorio, dello "spazio tra i personaggi". Le strade, i palazzi, il cielo sempre grigio, l'atmosfera soffocante e gelida al contempo sono degli elementi di prima importanza, che si sommano a quel mix esplosivo che è la sceneggiatura (A+B+C) portando alla deriva tutto il resto. Ecco, appunto, il resto... Probalimente è il rimanente, ciò che ci si nasconde ancora, e sempre più, a farci amare questo film. Perchè deve esserci qualcosa d'altro dietro gli occhi allucinati di Ann nel momento in cui guarda in camera e sembra svelare l'inganno.

Forse soltanto certo cinema fuori dagli schemi e di matrice surrealista o psichedelica può essergli in qualche modo accostato, per mero gusto analogico. Jodorowski, in qualche modo per il disinteresse della plausibilità (El Topo soprattutto, che è anch'esso un film multiplo, ma anche La Montagna Sacra), il già citato Polanski (L'inquilino del Terzo piano e Rosemary's Baby soprattutto), anche Arrabal, Bunuel, certe cose di Chabrol...