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Va' ieccati. Il cinema in fuorigioco.

È in grado il calcio, questo meraviglioso gioco, il cui misterioso fascino rivive, come scriveva Borges, ogni volta che in una qualche parte del mondo un bambino rincorre un qualcosa che rassomigli vagamente a un pallone, di sopravvivere all'epoca della sua riproducibilità televisiva? Sarà un caso se a parlare del calcio come di un rituale magico sia stato un poeta cieco?

Senza dubbio la possibilità che il medium televisivo offre a chiunque possieda l'infernale elettrodomestico di partecipare dovunque si trovi a questo rito che non è più un rito (oggidì è sempre più raro trovare una rete televisiva, dalla grande corporation alla più scassata delle emittenti locali che non proponga nei propri palinsesti la sua dose media giornaliera di pallone, eliminando così l'aspetto della ciclicità proprio della ritualità a favore della continuità, aspetto proprio della quotidianità) ha tolto a questo sport che non è più sport ("se calcio diventa business muore calcio" ebbe a dire qualche tempo fa un allenatore ceko che però ci vede benissimo) la sua aura magica, che consisteva esattamente nel non essere immediatamente accessibile a tutti. Chi voleva, infatti, assistere al rito doveva andarselo a cercare recandosi a quel tempio pagano che è lo stadio, il luogo della liturgia. Chi non poteva, o voleva, andare allo stadio doveva accontentarsi di ascoltare le cronache della radio o di leggere i resoconti con relative illustrazioni dei giornali e riviste specializzati, oppure attendere con trepidazione le immagini dei cinegiornali dell'Istituto Luce.

Il cinema, inteso sia come mezzo di comunicazione sia come luogo fisico di socialità, ricostruiva dunque ex post l'atmosfera e le attese che caratterizzano la realizzazione del rito calcistico in aperta antitesi con l'alienante algidità globalizzante impostasi con la diffusione degli incontri teletrasmessi.

Ma il rapporto tra il cinema e il calcio non si è limitato negli anni al mero racconto per immagini del momento agonistico. Esaurito, per effetto dell'accorciamento dei tempi dell'informazione connaturato al piccolo schermo, il suo ruolo di mezzo di informazione, il cinema non ha, tuttavia, reciso del tutto il suo legame con lo sport, e con il calcio in particolare (almeno in Italia), trasformandolo da oggetto passivo di riproduzione in soggetto attivo di finzione.

Non sempre, però, i risultati sono stati pari alle attese. Spesso, infatti, è capitato che, in mano a più o meno riconosciti santoni anglosassoni della macchina da presa, il calcio sia stato rappresentato ora come un ridicolo fumettone epico ("Fuga per la vittoria" di J. Huston ad esempio) ora come un patetico strumento di riscatto sociale ("My name is Joe" di k. Loach ad esempio). Il cinema italiano è riuscito, invece, a cogliere l'essenza più profonda del gioco del calcio: attività rituale, magica religiosa. Il calcio è una religione, l'unica religione, e, dunque, l'unico vero oppio dei popoli. Esso ha bisogno, oggi più che mai, di crearsi un'immagine di linguaggio universale, valido a tutte le latitudini, e questo lo sta uccidendo, perché il calcio non è questo, non è solo questo. Il calcio è, con la sua dura legge del goal, fondamentalmente una metafora della vita, la quale è, si sa, un pallone rotondo, e come tale ne racchiude gli odori, gli umori, i più biechi conati istintuali di riproduzione e sopravvivenza della specie. Il calcio, insomma, è fango, è sangue, è sudore, è merda. Ma questa è una verità imbarazzante e scomoda, proprio perché di una banalità disarmante. È come dire che il re è nudo, e chi può dire che il re è nudo senza incorrere nel reato di lesa maestà se non chi non ha ancora (o non ha più) nulla da perdere, ossia i bambini e i reietti, coloro cioè che non hanno ancora ( o non hanno più, o meglio ancora, non hanno mai avuto) alcuna credibilità presso l'opinione sociale? Ecco allora che solo i Sergio Martino, i Nando Cicero, i Carlo Vanzina, gli Alvaro Vitali e i Diego Abatantuono e i Lino Banfi (prima di essere sdoganati e ammessi negli ipocriti salotti buoni del cinema italiano, quello dei Lino Micciché, dei Mereghetti, dei Pontecorvo, dei Veltroni) ci hanno potuto raccontare nell'indifferenza generale l'altra faccia del Dio Pallone, quella fatta di allenatori falliti, dei giocatori a fine carriera pronti a tutto pur di strappare un ultimo contratto, di puttanieri brasiliani spacciati per fuoriclasse, di centravanti gaglioffi che si sbattono le mogli troie di presidenti cornuti e felloni che fanno di tutto per far retrocedere le proprie squadre, di improbabili e miserabili mediatori che finiscono a vendere cestini da viaggio in squallide stazioni di provincia, un mondo che sopravvive a sé stesso grazie anche ai milioni di fessi che tentano con disperate ripartenze di infilare in contropiede la miseria delle loro esistenze. Finché il guardialinee della vita non sbandiera loro l'ennesimo, inesorabile fuorigioco.

Film in rassegna:

Piccoli frammenti tratti da "Il Secondo Tragico Fantozzi"

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